1991
INVITO ALLA QUARESIMA
IL VENERDÌ SANTO, È GIÀ PASQUA
Al mondo è sempre Pasqua perchè è sempre il Venerdì Santo in cui il volto di Gesù ci libera da ogni colpa e ci salva. Basta contemplarlo sulla croce mentre esclama al buon ladrone: "Oggi sarai con me in paradiso". "Mi hai sedotto, o Signore, e io mi sono lasciato sedurre!" (Ez 20,7-9). L'uomo ha sempre desiderato di vedere il volto di Dio che salva. Mosè stesso aveva chiesto a Dio sul monte Oreb: "Mostrami, o Signore, la tua gloria" (Es 33-18). Ma Dio soggiunse: "Tu non puoi vedere il mio volto perchè nessun uomo può vedermi e restare vivo" (33,20). "Quando giunse la pienezza dei tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del suo figlio. Questo Figlio è l'irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" (Eb 1,2-3). Finalmente Dio ha voluto soddisfare questo desiderio umano con l'incarnazione del suo figlio unigenito Gesù Cristo. Nel volto di Cristo rifulge la gloria del Padre. A Filippo che gli chiedeva di vedere il volto del Padre, Gesù rispose: "Filippo, chi vede me, vede anche il Padre" (Gv 14,6-9). Il rimprovero di Cristo a Filippo è indirizzato anche a tutti noi affinché impariamo a contemplare il Padre nel volto del Figlio. Mentre il Padre si compiace del Figlio manifestando la sua voce nel battesimo di Gesù sulle rive del Giordano e nella trasfigurazione del monte Tabor, non esprime la sua compiacenza in Gesù quando pende dalla croce morente forse perchè in quel volto sfigurato non c'era che il nefasto riflesso dell'uomo peccatore, del condannato dalla giustizia divina prima che dall'infamia umana. Nel mondo dell'arte sorprende il fatto che tutti i Cristi realizzati con la pittura, la scultura e la letteratura siano riconducibili all'unico Cristo della storia che tutti sappiamo riconoscere a prima vista come l'immagine dell'unico Figlio del Padre nato da Maria Vergine. Anche il volto dell'uomo che ama, che spera, che soffre e muore acquista le sembianze del volto di Cristo che riaffiora sotto la nostra pelle. Noi siamo con Cristo la realtà di tutte le immagini che l'arte sa produrre. È il Dio che si è fatto uomo per potersi condannare a condividere amorosamente l'esperienza umana, per essere il nostro liberatore dalla schiavitù del peccato e delle sue conseguenze, per ricuperare in noi le sembianze del Creatore che ci ha plasmati a sua immagine e somiglianza. Non si deve fare una gran fatica a ravvisare il volto di Cristo innocente nei fanciulli e nelle persone miti e buone, così pure il volto di Cristo vittima nelle persone che soffrono e muoiono. Gli artisti non sfuggono solitamente al fascino del Cristo anche quando non si rendono conto di raffigurarlo così come lo vivono in se stessi e come lo intravedono nelle persone segnate sul volto dalla sofferenza della vita. Ogni immagine ha il suo riscontro nell'uomo in cui il Figlio di Dio rinnova quotidianamente l'esperienza della sua vita terrena. Il volto di Cristo infatti si riflette nel volto dell'uomo di sempre, a ritroso nel tempo, al presente e nel futuro sino alla consumazione dei secoli. Quando l'uomo di qualsiasi tempo e in qualsiasi situazione venga a ritrovarsi, si rivolge a Dio, riacquista il volto di Cristo liberandosi dalla propria solitudine e emarginazione, dal suo anonimato poiché ritrova e ricupera così le sue credenziali per documentare la propria identità di figlio di Dio. A volte il volto del Cristo si rivela nel senso più contradditorio anche sul volto di chi ha rinnegato l'amore o, perduta ogni speranza, si condanna alla morte dello spirito prima ancora di subire la morte fisica.
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Il volto di Cristo ci affratella tutti poiché nessuno, buono o cattivo, potrà mai cancellare da sé questa impronta divina che dichiara la nostra appartenenza a Dio in Gesù Cristo. Ora, se abbiamo tutti lo stesso volto, magari deturpato, se abbiamo tutti la stessa voce, se nutriamo tutti lo stesso sogno di felicità, è segno che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, vuol dire che la stessa realtà umana e divina che riscontriamo presente in Gesù Cristo è partecipata pure a noi. Professiamo pertanto la nostra fede in Cristo affermando:
- io credo in te, Signore, perchè tu credi in me; credo al tuo volto perchè mi ricorda il volto del Padre e di tutti i miei fratelli e suscita nel mio cuore il desiderio di contemplarti sempre senza avvertire mai nessuna stanchezza; credo perchè tu mi stimi anche se sono infangato da tanti peccati, mi stimi anche se io non ti stimo; credo perchè tu mi ami anche quando io non ti amo; credo perché ti lasci amare anche da chi non conta nulla al mondo; credo perchè ti amo, ti devo amare, perchè tu sei per me ciò che io non posso essere per te, l'amore che salva; credo perchè non pensavo di poterti amare così da desiderare di morire con te e per te che sei morto per me e per i miei fratelli. Amami, Signore, perchè io ti possa sempre amare anche per tutti quelli che non ti amano. Amen. aff.mo don Giulio |
VICARIATO BREMBILLA-ZOGNO
PER UNA PARROCCHIA SECONDO IL CONCILIO
(Convegno Ecclesiale Vicariale 15/1/1991)
Cambia la diocesi se cambia la parrocchia. Ma la parrocchia non può essere presente nella diocesi che nella misura in cui la diocesi si rende presente nella parrocchia medesima. Ci siamo infatti accorti in questi tempi conciliari che le riforme proposte dal centro non si sono incamminate sulla strada della parrocchia se non teoricamente, soprattutto se si tratta di parrocchia della montagna condannata a morire. La parrocchia è il prete che cammina con la sua gente. Molte parrocchie della montagna sono state private infatti dei loro pastori, accorpate prima e praticamente soppresse poi con decisioni sempre prese dall'alto e a insaputa degli interessati medesimi. Sembra a volte che non sia più il pastore che va alla ricerca delle pecorelle ma siano le pecorelle che vanno alla ricerca del pastore. Praticamente queste nostre piccole comunità non sentono affatto la presenza della diocesi che magari continua a chiedere offerte e partecipazione da una parte ma dall'altra non sa dare niente. Si sono rimossi i pastori, ma intanto sopraggiungono i mercenari perchè le nostre parrocchiette di montagna diventano così libero campo all'invasione delle sette - avendo demolito il recinto della mistica vigna di Cristo - tutti i viandanti ne fanno vendemmia e l'animale selvatico può libera- mente pascersi. (Ps 79). S'è detto che la parrocchia è di natura sacramentale perchè è chiamata a rendere visibile il mistero di Cristo nascosto nei secoli attraverso le realtà corporali da cui passa questo mistero, si visibilizza (Lumen Gentium, N° 28). Ma ciò è possibile soltanto se esiste la comunità di fede, perchè ora è posta in dubbio la sopravvivenza della comunità medesima, in cui si realizza la comunione dei fedeli con Dio e in cui gli uomini da salvati si rendono disponibili per salvare i fratelli. Non è certamente comunità autentica quella in cui i fedeli si considerano clienti occasionali, vedi il turismo che gravita in questi luoghi di villeggiatura o di passaggio per le scampagnate festive, e si considerano semplici spettatori o consumatori di quanto viene ammonito di volta in volta da una autorità aleatoria. La parrocchia non deve essere la bottega del prete, come è stata stigmatizzata nel passato, ma non può ridursi neppure a bottega di nessuno o solamente per eventuali circostanze. La comunità di fede, per noi la parrocchia, scaturisce dalla parola di Dio proclamata e celebrata nei sacramenti e quindi testimoniata con la vita. Tutto ciò deve avvenire in maniera sistematica e ininterrottamente, pena l'estinzione della comunità medesima. I gruppi spontanei che insorgono un po' dovunque oggigiorno, anche nelle parrocchiette di montagna, possono aiutare sì la comunità ma non la possono sostituire e, quando muore la parrocchia, muoiono anche i gruppi. Anche il perfezionismo che serpeggia a volte nei gruppi può costituire un'ulteriore discriminazione quando la Chiesa d'élite rischia d'esprimersi col rifiuto per la Chiesa tradizionale e di massa, ignorata e sorvolata non ha più voce per esprimersi nelle decisioni prese nell'ambito pastorale. La ricerca ambientale in voga in questi nostri tempi ci insegna che la cultura vallare si sta sradicando. È una frana sotto l'urto incontrollato di masse turistiche soffocanti che col loro sopravvento riducono al rango di servizio la debole comunità dei nostri centri montani. Oggi è scomparso il turismo della famiglia di quando si recava unita a villeggiare insieme: gli anziani rimangono a casa e sono affidati a degli istituti, i genitori vanno da una parte mentre i figli vanno dall'altra, il ragazzo con la ragazza nella convivenza sotto la stessa tenda o col sacco a pelo all'avventura. Nelle nostre famiglie ormai l'ingrediente anziano non è più ammesso in nessuna vivanda. Gli anziani costituiscono per lo più una voce che non è più determinante, anzi spenta, costretta ad affrontare il soliloquio per potersi sfogare perché non trova ascolto. Se l'uomo è la via di Dio, come dice il Concilio, non si possono ammettere discriminazioni per l'età o per il numero degli abitanti. Quindi una parrocchia vale l'altra anche se una è più popolosa e l'altra meno. La dilagante calamità della droga non risparmia neppure le nostre valli e anche i centri più isolati con tutte le sue deleterie conseguenze. Ormai ci siamo resi conto che il problema non si risolve nè con le pastiglie, nè con la prigione e neppure con le istituzioni che costellano tutta la nazione. Sono piaghe che accusano anche la Chiesa per la sua latitanza là dove i problemi umani non sono più illuminati dalla fede. Nel nostro ambiente, insorge qua e là fortunatamente una certa reazione tra i giovani che rimpinzati di troppe cose ne sentono finalmente la nausea. Si parla pertanto anche di un ritorno che serve ad arginare in parte la mala vita. La bestemmia tuttavia si è diffusa spaventosamente persino sulla bocca dei bambini e delle donne. Tale comportamento annuncia avversione contro tutto ciò che è sacro e costituisce una condanna per tutte le scelte sbagliate della nostra vita con tutte le sue contraddizioni. La montagna ha sempre dato il meglio di sè ed è ancora in grado di dare anche vocazioni sacerdotali e religiose quando non la si voglia abbandonare o costringere a morire d'inedia. Concludendo: se vogliamo aggiornarla al Concilio, la parrocchia di montagna, prima bisogna farla sopravvivere.
CELEBRIAMO LA PASQUA
NELLA BEATA SPERANZA DELLA VITA ETERNA
Celebriamo la Pasqua in Cristo Gesù che sulla croce ha sconfitto la morte associando a sè l'umanità nella gloria della risurrezione. Il sepolcro di Cristo, rimasto vuoto, costituisce la prova sostenuta dalla fede che tutti i sepolcri rimarranno vuoti perché Cristo è risorto come la primizia di tutti quelli che dormono in attesa di seguirlo nella gloria. Sui frontespizi dei nostri cimiteri la speranza cristiana ha scritto: "Resurrecturis" (A coloro che stanno per risorgere). Cristo infatti ci ha preceduto salendo alla destra del Padre a intercedere per noi "perchè dove sono io abbiate a essere anche voi", dice il Signore (Gv 14,2 e ss.). Per S. Paolo i cristiani sono già risorti: "Risuscitati insieme con Cristo, cercate le cose del cielo" (Col 3,1). "Non abbiamo infatti qui una dimora permanente ma tendiamo pellegrini verso la dimora eterna" (2Cor 5,1 e ss.). "Bramo la morte per essere con Cristo", afferma ancora S. Paolo, "Per me infatti il morire non è una perdita ma un guadagno" (Fil 1,21). Fare Pasqua significa pertanto vivere nella speranza della vita eterna adeguando tutte le nostre scelte a quello scopo. La speranza è la virtù (abito operativo buono) che ci rende capaci di vivere le realtà future come se fossero già presenti. La speranza è una forza liberante che ci aiuta ogni giorno a realizzare il nostro trapasso nella vita futura influendo su tutto il nostro modo di vivere. Si oppone all'utopia che si presenta come una trascrizione laicista della speranza desacralizzata, è una presa di coscienza che l'uomo deve bastare a sè nella piena indipendenza da Dio. L'utopia è la morte della morte che in Cristo appartiene già alla vita. Il mistero della salvezza è un evento che irrompe nella storia dell'umanità per la libera e sorprendente iniziativa di Dio, che per mezzo di Cristo, guida tutti i credenti alla conquista del regno. La nostra diventa così una storia aperta al futuro. Cristo, anzi, è un avvenimento escatologico (relativo al fine ultimo) che porta con sè la tensione verso il futuro assoluto, Dio. È soprattutto il mistero pasquale che rivela pienamente il significato escatologico dell'avvenimento, Cristo. La sua morte è il compimento del suo darsi definitivamente a Dio con questo atto di esodo da se stesso e di piena fiducia nel Padre (Eb 5,7). Il tempo di Cristo giunge alla sua suprema tensione di comunione di vita con Dio: "Nelle tue mani, o Signore, affido la mia vita" (Lc 23,4-5). La risurrezione di Cristo è l'inizio di una vita nuova per lui e per tutti noi perchè fu risuscitato da Dio come primizia di quelli che dormono (1Cor 15,20-57); "...primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29); "... spirito vivificante" (Col 1,18 e At 26,23). La risurrezione in questo senso è la fonte della speranza cristiana. Il mondo rinchiuso nella morte e nella colpa si apre verso un futuro divenuto ormai presente. Nella risurrezione di Cristo infatti hanno compimento tutte le promesse che Dio ha fatto ad Abramo e alla sua discendenza secondo la fede, come dice Gesù di Zaccheo (Gal 3,16-22 e Cor 1,19-20 e Lc 25,25-27.44,47). L'irruzione trascendentale dell'evento Cristo trascende tutti i tempi per cui il futuro della storia è il futuro di Cristo che comporta la totale distruzione della morte. Tutto ciò pone il cristiano in uno stato di tensione e quindi di attesa travolto dalla dinamica dello Spirito verso la maturazione finale in cui ha pieno compimento la beata speranza, quindi la salvezza in Cristo. La nostra tuttavia è una speranza crocifissa che si apre al dono della risurrezione (Rm 4,17). Per questo appunto diventa speranza contro ogni speranza (Rm 8,24-25 e Eb 11,1) di cui Cristo è la fonte perchè con la sua morte e risurrezione ci riscatta dalla perdizione facendoci partecipi dell'Eterno. La morte appartiene al tempo, la vera vita all'eternità. La speranza cristiana passa attraverso la sofferenza di chi vuole esistere per gli altri sull'esempio di Cristo per cambiare il mondo "Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perchè amiamo i fratelli" (1Gv 3,14). Il futuro della speranza cristiana non è l'orizzonte vuoto ma la pienezza reale dell'uomo nuovo nella comunione con Dio, l'Assoluto, resa possibile da Cristo in cui è annientata la nostra umana fragilità. La speranza è dei forti perchè alimenta la resistenza al sacrificio che comporta il dono pieno di sè perché il mondo diventi ciò che nella promessa divina è chiamato a essere, il regno di Dio. La nostra è la Pasqua del duemila in cui Cristo torna a immolarsi nel cristiano per la salvezza del mondo; anzi, siamo noi che credendo alla risurrezione di Cristo viviamo già da ora in lui la nostra sorte futura. Auguri a tutti di una santa e felice Pasqua.
Aff.mo don Giulio
Aff.mo don Giulio
ANDIAMO TUTTI ALLA CENA DEL SIGNORE
Il Convegno ecclesiale diocesano, che mira ad aggiornare la Chiesa di Bergamo al Concilio Vaticano II°, si chiude giustamente con il Congresso Eucaristico dal 26 maggio al 2 giugno in Bergamo per significare la grande realtà di Cristo che vive con la sua presenza in mezzo a noi unendoci tutti nel banchetto del suo corpo e del suo sangue, il grande banchetto che il Padre celebra per festeggiare le nozze di suo figlio con l'umanità. Irrompe così Dio nella storia dell'umanità, prima con l'Incarnazione e poi donandosi nella cena eucaristica che si celebra in sua memoria comunitariamente. La cena del Signore diventa così la cena della comunità di fede, la Chiesa. L'ultima che Gesù ha consumato coi suoi discepoli prima di essere immolato sulla croce è diventata anche la prima cena della comunità cristiana, cioè della Chiesa che sgorgherà definitivamente dal suo costato squarciato dalla lancia di Longino, come affermano anche i santi padri. In quella cena il Signore ha donato se stesso con il suo corpo e il suo sangue realmente e personalmente. Nella cena eucaristica della Chiesa Gesù Cristo continua a offrire se stesso personalmente ma anche comunitariamente col suo corpo più grande di cui Lui è il Capo e noi le sue membra come afferma l'apostolo Paolo. Siamo pertanto tutti presenti nella Eucaristia perchè formiamo in Cristo un solo corpo animato dal suo stesso Spirito. La parabola della vite e i tralci è molto incisiva: Cristo è la vite e noi i tralci. La pianta della vite è unica, ed è Cristo. I tralci sono molti ma ciascun tralcio è unito direttamente alla vite in forza del Battesimo. Nell'Eucaristia viene perciò evidenziata la realtà del Battesimo che ci unisce a Cristo come figli di Dio formando insieme con Lui un solo popolo profetico, sacerdotale e regale. Nell'Eucaristia si rende visibile il Mistero di Cristo nascosto nei secoli passando attraverso la realtà corporali nostre mentre ci troviamo uniti a mangiare dello stesso corpo e a bere dello stesso sangue del Signore linfa vitale per la nostra vita presente e futura. A questo punto dobbiamo ammettere che la meta dell'Eucaristia è l'uomo di fede inteso tuttavia comunitariamente: Cristo e noi. L'Eucaristia non è la cena degli individui ma della comunità in cui Cristo si dona al suo Corpo, la Chiesa, così come il suo Corpo, la Chiesa, si dona al suo Capo realizzando una perfetta comunione. Anche nel sacramento del Matrimonio la comunione degli sposi esprime nella maniera più grande la realtà eucaristica: "Come l'uomo si unisce alla sua donna così Cristo si unisce alla sua Chiesa", affermazione di Cristo da tradursi più esattamente così: "Con l'uomo che si unisce alla sua donna Cristo si unisce alla sua Chiesa". Da tutto ciò si deduce quanto sia grande il sacramento del Matrimonio tra i fedeli a differenza del matrimonio civile e della convivenza là dove gli elementi sacramentali si sono alterati, come il vino diventato aceto e la farina acida, per cui ne rendono impossibile la celebrazione. La Chiesa è fondata sulla Eucaristia che celebra e da cui è generata così come, la Chiesa, si fonda sulla famiglia cristiana, piccola chiesa domestica, che visibilizza l'amore di Cristo per l'umanità ponendosi a base della Chiesa particolare e universale. È sempre l'uomo la meta dei sacramenti inteso comunitariamente. Il cristiano che si estrania dai sacramenti e dall'Eucaristia in particolare si estrania da Cristo perchè non comunica con la Chiesa di Cristo che è la Comunità di fede che vive dell'Eucaristia che celebra e da cui è generata. Viviamo pertanto insieme, comunitariamente, la importante celebrazione conclusiva del convegno ecclesiale a livello diocesano partecipando con viva fede al Congresso Eucaristico in Bergamo secondo i programmi pubblicizzati anche per riconoscere – con la nostra presenza - la chiesa locale che ha come punto di riferimento vitale e centrale il Vescovo, con cui dobbiamo sempre vivere in comunione perchè è lui la presenza visibile di Cristo nostro capo.
aff.mo don Giulio
aff.mo don Giulio
INVITO ALLA FESTA DI S. LORENZO
Lorenzo significa “servo”. Nel nostro caso “servo di Dio nei fratelli”. Un antico documento del 354, la “Depositio Martirum”, ricorda che S. Lorenzo M. è stato sepolto il 10 agosto presso l’”Ager Veranus”, l’attuale grande cimitero di Roma che si sviluppa sulla Via Tiburtina dove sorge la basilica del santo martire. La tradizione vuole che quattro diaconi venissero arrestati, durante la persecuzione dell’imperatore Valeriano, con papa Sisto II° mentre veniva sorpreso a celebrare la S. Messa nel cimitero di S. Callisto, il 6 agosto 258. Papa Sisto venne decapitato subito, secondo quanto riferisce S. Cipriano, vescovo di Cartagine, in una sua lettera scritta appena tre settimane dopo la decapitazione, il medesimo martirio che a breve distanza di tempo subirà lo stesso Cipriano, esattamente il 17 settembre 258. Lorenzo non venne ucciso subito perchè i suoi persecutori speravano di potergli strappare i beni della comunità che egli amministrava in favore dei poveri. Ma Lorenzo, raccolti i poveri che assisteva, li presentò all’imperatore dicendo: “Ecco qui tutti i miei tesori!” Venne pertanto arso vivo su una graticola il 10 agosto 258. S. Agostino, che visse dal 354 al 430, nel suo discorso, 304, afferma: “Oggi 10 agosto, la chiesa di Roma celebra il giorno del trionfo di S. Lorenzo, giorno in cui egli rigettò il mondo del male. Lo calpestò mentre incrudeliva rabbiosamente contro di lui e lo disprezzo mentre lo allettava con le sue lusinghe. In un caso come nell’altro sconfisse satana che gli suscitava contro la persecuzione. Lorenzo era diacono della chiesa di Roma. Ivi era ministro del sangue di Cristo e là, per il nome di Cristo, versò il suo sangue. Il beato apostolo Giovanni espose chiaramente il mistero della Cena del Signore dicendo: - Come Cristo ha dato la vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli (Gv 3,16). Lorenzo, fratelli, ha compreso tutto questo. L’ha compreso e messo in pratica”. La liturgia del 10 agosto così celebra in sintesi la figura di S. Lorenzo nella colletta introduttiva della S. Messa: “O Dio, che hai comunicato l’ardore della tua carità al diacono Lorenzo e lo hai reso fedele nel mistero e glorioso nel martirio, fa che il tuo popolo segua i suoi insegnamenti e lo imiti nell’amore di Cristo e dei fratelli”. S. Lorenzo toma ogni anno col suo grande messaggio di fede carico di ardore giovanile e di eroismo cristiano. Dimostra così che Dio opera nell’uomo fragile le meraviglie del suo amore. È Dio quindi che suscita i santi. L’uomo deve soltanto rendersi disponibile all’opera di Dio: “Eccomi, Signore, si faccia di me secondo la tua volontà” (Eb 10,7). Quando l’amore divino infiamma il cuore dell’uomo, non c’è nessun altro fuoco, neppure quello della graticola di S. Lorenzo, che possa piegare la fedeltà dell’innamorato: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7-9). Celebrare la festa di S. Lorenzo significa imitarlo nelle sue virtù da innamorato di Dio e dei fratelli.
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Non possiamo infatti celebrare l’ardore giovanile di S. Lorenzo con l’egoismo delle nostre discriminazioni; la fedeltà del santo col tradimento delle nostre scelte da materialisti; la gloria del martire con l’ignavia e la pusillanimità del nostro comportamento da indifferenti. Lorenzo è il santo della carità, quindi dell’apertura piena alle necessità e ai problemi dell’uomo. Se S. Lorenzo avesse rinunciato ai poveri, avrebbe rinnegato anche Dio, e viceversa, poiché la strada di Dio è l’uomo, come si va ripetendo in questi tempi post-conciliari. Ritroviamoci, vicini e lontani, a celebrare insieme la festa patronale di S. Lorenzo col desiderio di praticarne gli insegnamenti per evitare così di ridurci a una comunità sclerotica priva di prospettive coraggiose e di vitalità pastorale. Le nostre celebrazioni, se non ci coinvolgono personalmente con un impegno di conversione e di santità, sono condannate a esaurirsi come i fiori di una festa che appassiscono col giorno che declina. Un vivissimo augurio di rinnovamento spirituale a tutti.
aff.mo don Giulio |
A novembre torna più insistente il pensiero della morte.
PER QUALE MORTE?
CHE FARE PER RICOMPRENDERE NELLA VITA L'ESPERIENZA DEL MORIRE?
Il modo di morire dipende dalla cultura, come s'è detto, pertanto "come si vive si muore!" (sic vita, sicmors), afferma il proverbio. Se la nostra è la cultura del consumismo e dell'utilitarismo, non dobbiamo poi meravigliarci che anche la morte alla pari della vita venga gestita da questi non valori. Bisogna quindi liberare l'uomo da questa nuova forma di schiavitù o di dipendenza per poter risolvere meglio il problema e della vita e della morte. Quando abbiamo constatato gli effetti negativi dobbiamo risalire alle cause per poterle rimuovere. Non basta tuttavia diagnosticare e stigmatizzare la situazione, ma occorre indicare proposte alternative concrete da perseguire. Ecco pertanto la mia proposta che vuole essere di carattere culturale e religioso, riferita all'ambiente inteso come territorio umanizzato e cristianizzato. Il discorso sull'ambiente oggi è di moda intanto che ciascuno di noi non rinuncia in una maniera o nell'altra a offrire il proprio contributo all'inquinamento sotto vari aspetti, non ultimo quello etico e morale per cui l'uomo risulta disastrato perchè non è più capace di essere se stesso, nè in vita nè in morte. Bisogna ricuperare la sacralità di tutte le creature per poterle stimare e valorizzare. Pensiamo all'aria, all'acqua, alla terra, alla flora, alla fauna e soprattutto all'uomo. L'idea è la forza motrice di tutto il costume. Chi ha idee vive in prima persona la sua scelta, mentre chi è senza idee subisce quelle degli altri e ne diventa schiavo. L'idea cristiana, o la fede, considera l'uomo integralmente, con tutti i suoi problemi di vita e di morte, lo illumina e lo sostiene nel suo cammino impegnandolo a gestirsi in prima persona la vita e la morte trasfigurata nel senso religioso e sacralizzata nei riti liturgici in maniera che è Cristo che toma in ciascuno di noi a vivere e a morire. La Chiesa insegna sull'esempio di Cristo che la morte si vince affrontandola: "Mors et vita duello conflixere mirando" e non ignorandola (tragica finzione) come se non ci appartenesse e non fosse l'epilogo della vita medesima che dà significato a tutta la nostra esistenza: morire per dare e non per perdere la vita! La morte è ancora virtù ("vita mutatur sed non tollitur" afferma la liturgia). Il rifiuto della vita è un rin- negarsi, un chiudere in fallimento la propria esistenza terrena con tutte le conseguenze del "post mortem". Ma anche il rifiuto della morte è un fallimento della vita stessa che si può paragonare a una preziosa banconota svalutata. Il mondo, che siamo noi, è riuscito a condannarci all'angoscia e alla follia della morte perchè, negandola e ignorandola, ci costringe ad affrontarla da soli come un dramma che comporta un solo attore, nascosto dietro il paravento. La morte di Cristo non è come la morte eroica di Socrate, ma dell'uomo comune che accetta di morire con fiducia perchè rientra nel disegno della redenzione, cioè della rinascita alla vita eterna secondo la parabola del seme fecondo, che si trasforma in un magnifico albero. Si possono spiegare soltanto così le affermazioni sorprendenti dell'apostolo Paolo: "qotidier morior" - "mori lucrum" - cupio dissolvi et esse cum Cristo". Tutto ciò trova la sua sintesi nel detto di S. Agostino: "Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, Domine". La nostra vita e la nostra morte appartengono alla comunità, mentre quest'ultima si cerca di privatizzarla ponendola dietro il paravento per cui il moribondo è condannato all'isolamento. Solo dopo la morte la comunità viene coinvolta farasaicamente e si scatena col consumismo delle pompe funebri "ars consolatoria" per i superstiti. A morire, è vero, non si può delegare nessuno, ma è ben disumano il fatto di costringere la gente a morire sprovvista della speranza di vivere. Ci vuole la speranza di vivere anche a morire, ma quella autentica te la può dare soltanto la fede in Cristo che come un boomerang ti riporta indietro tutto ciò che hai seminato nella tua vita. "En la tua voluntate è nostra pace" (Dante Alighieri e S. Francesco d'Assisi). Occorre dare senso a tutto ciò cui aspira l'uomo affinchè non si senta uno sconfitto nè in vita nè in morte. Se è vero che l'amore vince la morte, sfidandola, ma con l'arma giusta. Quando non si cerca il paradiso in terra, che non c'è, si può parlare di morte con maggior semplicità, senza traumi, come di una logica conclusione della propria esistenza terrena, preludio alla vita eterna. All'inizio s'è parlato di cultura, ora si deve parlare di spiritualità dell'uomo, cioè del suo rapporto interiore con l'Assoluto, che lo rende capace di gestire la propria vita e la propria morte. L'uomo prende così coscienza della propria esistenza partecipata che non possiede per se stesso, ma come dono da trasmettere a sua volta all'insegna di una sopravvivenza in cui crede e a cui non può rinunciare. Se l'uomo, finalmente, si rende conto che lo scopo della vita è più grande della vita medesima, è segno che è destinato ad affermarsi in essa nella maniera più grande che la stessa morte non può distruggerla: la morte, il tempo e l'uomo camminano insieme fin che cessando il tempo s'unisce anche la morte, ma l'uomo continua oltre il tempo e la morte il suo cammino. A questo punto vale la pena di affermare, come dicevano i francesi: "è bello morire per la patria" a cui tutti siamo chiamati.
don Giulio
don Giulio
L'AUGURIO NATALIZIO
Il Natale è la festa della vita, dell'amore di Dio fatto uomo per salvarci. Il mito di Prometeo afferma che un uomo prodigioso è riuscito a strappare eroicamente il fuoco dal cielo agli dei per accenderlo sulla terra. La fede invece c'insegna che è Dio medesimo che la lasciato il cielo per la terra, innamorato degli uomini, per portarvi il fuoco del suo amore: "Ho portato il fuoco sulla terra e desidero che questo fuoco abbia a divampare in tutto il mondo": (così canta l'antifona del Magnificat dei primi Vespri nella solennità del Sacro Cuore). Questo è il fuoco del roveto ardente apparso a Mosè sul Monte Oreb, è il fuoco che ha reso incandescente il Monte Sinai quando Mosè salì per ricevere le tavole delle dieci leggi, questo è il fuoco dell'amore di Dio che non distrugge ma vivifica, questo è il fuoco che si è fatto bambino in Gesù Cristo e che poi Gesù invierà sui discepoli nel mattino della Pentecoste mentre erano rinchiusi nel Cenacolo e invia su ogni uomo che rinasce dal fonte battesimale; è il fuoco destinato a rinnovare la faccia della terra, cioè tutta l'umanità. Il Natale tuttavia non può giungere a noi se non passa attraverso l'uomo escludendo ogni discriminazione. È il dono che Dio ci offre attraverso i fratelli proprio perchè la via regia di Dio è l'uomo. Quando ci capita di prendere in braccio un bambino, rendiamoci conto che quello, pur non sapendo chi sia, è il figlio di Dio che si è fatto uomo in mezzo a noi per manifestarci il suo amore: e si affida alle nostre mani per ricevere la testimonianza, come risposta al suo, del nostro amore. Se ci accostiamo all'ammalato che soffre, all'anziano che si regge a fatica, all'emarginato che non si sente stimato, a chi ha perduto la fiducia nella vita, sappiamo che è ancora il figlio di Dio che si abbandona all'avventura umana immedesimandosi con ogni vittima della sofferenza per esserne il salvatore. Così quando c'imbattiamo in un fratello traviato e peccatore non dimentichiamoci del figliol prodigo che attraverso gli sbagli della vita impara a conoscere l'amore del Padre da cui si sentirà sedotto per decidere il suo ritorno se nel nostro comportamento rifulgerà il fuoco di quell'amore. Abbandoniamoci all'abbraccio di chi cerca l'amore che salva. Così è Natale, il Natale che riporta Dio sulla terra affinchè possa riportare l'uomo al cielo. Se la via di Dio per la sua discesa sulla terra è l'uomo, per chi vuole dare la scalata al cielo non può trovare altra via che non sia la via del fratello in cui ciascuno è chiamato a riscoprire il proprio Dio Salvatore. Gli angeli tornino così a cantare: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama" perchè anche noi ci amiamo. Di vero cuore, Buon Natale a tutti indistintamente.
Vostro aff.mo don Giulio
Vostro aff.mo don Giulio
PIANO PASTORALE 1991-1992
"IL GIORNO DEL SIGNORE"
L'uomo deve al Signore le primizie del suo lavoro e del suo tempo. Di sette giorni Dio se ne è riservato uno solo, il settimo, che per il cristiano è la Domenica, giorno di Pasqua e di Risurrezione di N.S.. Dio stesso, secondo le sacre scritture, ponendosi come esempio per l'uomo, si è riposato il settimo giorno dopo le grandi fatiche della creazione, così per intenderci analogicamente e antropologicamente, e vuole che anche l'uomo si riposi con Lui, come un figlio col proprio padre, dopo il lavoro settimanale. Il riposo festivo non è destinato all'ozio di chi non ha nulla da fare, ma deve essere riempito, oltre che con uno svago onesto, con la preghiera sia in famiglia che nella comunità cristiana e con gesti di carità. Il precetto festivo, che il diritto canonico rende obbligatorio dal settimo anno di età, non raggiunge il suo scopo se il cristiano non partecipa all'assemblea eucaristica nell'ambito della propria comunità parrocchiale in cui deve sentirsi Cristo in comunione coi propri fratelli condividendo insieme la parola di Dio e l'Eucaristia. Quando il fedele vaga di qua e di là per adempiere il precetto festivo, si rende estraneo alla propria comunità per sentirsi forestiero in altre privandosi di condividere il giorno del Signore coi propri cari familiari e parrocchiani. La festa, per essere tale, la si vive in famiglia e al proprio paese con la propria gente e non certamente con gli estranei. Il giorno del Signore è il tempo privilegiato da dedicare all'accoglienza e all'intimità in casa coi propri familiari e all'incontro con la comunità in festa senza trascurare gli anziani e gli ammalati che attendono in quel giorno le attenzioni che non possono ricevere dai propri cari lungo la settimana lavorativa. I gesti di bontà e di carità non si devono improvvisare al momento in cui capita l'occasione, soltanto, ma si devono programmare per non lasciare sfuggire l'occasione di fare il bene. Il giorno del Signore è tempo privilegiato anche per la verifica della propria fede attraverso la parola di Dio e la preghiera, è il giorno in cui si deve particolarmente interrogare il proprio cuore se ha qualcosa da rimproverarci come negligenze nei nostri doveri di fronte a Dio e ai fratelli. Il cuore è come il telefono senza fili in diretta con Dio, se vogliamo farlo funzionare, attraverso cui giunge la voce di Dio che approva il bene e disapprova il male che facciamo. Il giorno del Signore mira pertanto a promuovere la nostra conversione a Dio e ai fratelli, sia come persone e sia come comunità e per attingere slancio e generosità per affrontare con gioia la fatica di una nuova settimana che ogni volta si prospetta migliore e più ricca di opere buone. Se l'uomo riposa con Dio, Dio cammina poi con l'uomo.
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