“DONNE E UOMINI CAPACI DI CARITÁ”
Introduzione
Scrivo questa introduzione al rientro dal viaggio missionario che mi ha portato in Brasile e in Bolivia, dove ho incontrato donne e uomini della nostra terra, che annunciano e testimoniano il Vangelo di Gesù. La mia riconoscenza per ciò che ho visto e udito si è nutrita di meraviglia, ammirazione e insieme di sentimenti di profonda gioia. Mi sono confermato nella convinzione che il linguaggio più comprensibile per comunicare il Vangelo è quello della Carità vissuta. È il linguaggio di molti cristiani anche tra noi; è il linguaggio con cui le nostre comunità, capaci di Vangelo e di Eucaristia, desiderano parlare in modo sempre più chiaro e convincente a tutti; è il linguaggio di tante donne e uomini di buona volontà, che non si dicono cristiani, ma vivono il messaggio evangelico; è il linguaggio di Gesù e dunque del nostro Dio. Le donne e gli uomini capaci di Vangelo e di Eucaristia sono e debbono essere capaci di Carità. È l’itinerario che vi propongo per l’anno pastorale che si apre: un percorso molto impegnativo e nello stesso tempo esaltante e gioioso. Si tratta di un cammino personale e comunitario, fortemente contrassegnato dalla celebrazione del Giubileo della Misericordia, dalla continuazione dell’Anno della Vita Consacrata e insieme dalla visita vicariale che mi porterà nuovamente vicino a tutte le comunità della nostra Diocesi. Un cammino che si dispiega nell’orizzonte di eventi speciali come la beatificazione di don Sandro Dordi, l’imminente e atteso Sinodo sulla Famiglia, il Convegno della Chiesa italiana a Firenze, nell’ambito del decennio dedicato all’educazione, la celebrazione della Giornata mondiale della gioventù a Cracovia. Un cammino particolarmente ispirato agli Orientamenti sinodali della nostra Chiesa diocesana. |
Il Giubileo della Misericordia
Papa Francesco ci ha sorpreso ancora una volta annunciando al mondo e alla Chiesa un Anno giubilare nel segno della Misericordia. Le mani di Dio sono mani di misericordia: la mano del perdono dei peccati e quella delle opere di misericordia. Tutta la vicenda biblica e l’evento culminante della missione di Gesù sono la testimonianza di queste mani misericordiose. Lasciamoci raggiungere ed abbracciare dalle mani di Dio: il Papa si fa interprete dell’attesa, a volte nascosta, ma certamente diffusa e sofferta, di una misericordia più grande del nostro peccato e di un amore capace di nutrire tutta l’esistenza. Desidero raccogliere le indicazioni e le possibilità offerte dalla Diocesi per una celebrazione degna del dono del Giubileo nella luce di questi criteri sintetici: privilegiamo la dimensione parrocchiale, vicariale e diocesana; incrementiamo la possibilità di accedere al Sacramento della Penitenza e rinnoviamo l’invito a chiedere il perdono dei peccati; promuoviamo le opere di misericordia come segno della conversione del cuore. L’indicazione di una chiesa giubilare per ogni Vicariato locale vuol rappresentare l’ampiezza delle possibilità di far esperienza della misericordia di Dio che avvicina ogni persona ed ogni condizione. Il simbolo dell’unica Porta Santa nella Chiesa Cattedrale desidera manifestare l’unità delle nostre comunità, frutto prezioso dell’accoglienza della misericordia di Dio.
La visita vicariale
Dopo la conclusione della visita vicariale dedicata alla dimensione liturgica della vita comunitaria, ho annunciato una nuova visita vicariale dedicata alla dimensione della Carità. Mentre la lettera dal titolo “Donne e Uomini capaci di Eucaristia”, si collocava al termine di quella visita, la lettera attuale si pone all’inizio della prossima e ne diventa una specie di introduzione. La visita vicariale è una preziosa occasione di ascolto di esperienze, riflessioni e prospettive e di dialogo con i presbiteri, i diaconi permanenti, i consacrati e tutti gli animatori ed operatori della pastorale della Carità. Dal desiderio di questo dialogo è scaturita la consapevolezza della necessità che l’incontro stesso si allargasse a tutti gli operatori pastorali che donano il loro tempo, le loro energie, il loro cuore, la loro intelligenza e competenza nei diversi ambiti della vita dell’uomo: la famiglia, le relazioni significative e l’educazione, il lavoro e lo sviluppo della società, la salute e la scuola, il mondo delle fragilità e dei bisogni, la cultura e la comunicazione, la cittadinanza e la politica... Spero che questo incontro, preparato dal lavoro degli ultimi mesi, possa diventare un’occasione preziosa per condividere criteri e orientamenti pastorali, ispirati alle indicazioni sinodali, alla lettura e interpretazione dei dati di ciascun territorio e a questa stessa lettera pastorale.
La visita vicariale è una preziosa occasione di ascolto e di esperienze, riflessioni e prospettive e di dialogo con i presbiteri, i diaconi permanenti, i consacrati e tutti gli animatori ed operatori della pastorale della Chiesa.
L’icona
L’icona scelta per rappresentare il cammino di quest’anno è quella del Buon Samaritano. Vi sarà la possibilità di approfondirla in tanti modi. Tra i molteplici passaggi del racconto di Gesù, vorrei particolarmente sottolineare il sentimento della compassione. E il sentimento che cambia lo sviluppo della narrazione. I diversi protagonisti passano sulla medesima strada e vedono la medesima scena, ma colui che avvia un processo di salvezza è chi si lascia muovere interiormente, visceralmente, dalla compassione. Permettete questa osservazione a margine: oggi si sottolinea spesso come le prese di posizione dell’opinione pubblica siano soprattutto di indole viscerale. Si parla di emotività, di istinti, di impulsività, affermando che massmedia e capipopolo sollecitano volutamente queste reazioni per i propri interessi. Nella parabola ci viene presentata una condizione per certi versi analoga, ma di tenore assolutamente diverso: ci troviamo davanti ad una visceralità che muove a condividere la sofferenza di chi soffre, a ribellarsi alle cause di questa sofferenza adottando scelte che non la moltiplichino e a soccorrere in modo fattivo chi dalla sofferenza è provato. La compassione è la stessa visceralità di Dio nei confronti dell’uomo e della sua radicale condizione di precarietà. La compassione evangelica rappresenta il tratto del coinvolgimento personale nella relazione con l’altro e determina una trasformazione che assume il volto del prossimo. Gesù indica nell’inseparabilità dell’amore di Dio e del prossimo il comandamento più grande. Questo primo insegnamento è decisivo, ma inevitabilmente solleva la domanda: chi è il mio prossimo? L’esito finale della parabola stravolge ogni definizione di prossimo proiettata fuori di noi e indica invece una scelta, una determinazione, uno stile: il prossimo non si sceglie, ma prossimo si diventa. Il comandamento dell’amore prevede che sia io a farmi prossimo ad ogni persona umana, particolarmente a chi è provato nella vita. “Va’, e anche tu fa lo stesso” è l’indicazione fondamentale che Gesù consegna al lettore del Vangelo e al discepolo che crede in Lui. Chi è il cristiano? Si tratta di una domanda dalle molte risposte. Ne evoco una che può suonare come provocazione, ma che in questo contesto mi sembra del tutto pertinente: “Il cristiano è colui che ama”.
La conversione
L’esigenza fondamentale che la Parola e l’esistenza di Gesù sottopongono a coloro che lo seguono è quella della conversione: una trasformazione profonda, frutto della Grazia e della libertà, che descriverei in quattro modi.
Il passaggio dalla durezza alla tenerezza del cuore
Papa Francesco evoca con frequenza la dimensione della tenerezza. Nella testimonianza biblica e nelle parole di Gesù ritroviamo con altrettanta frequenza la denuncia della durezza di cuore. Una durezza che ostacola ogni apertura all’amore di Dio e a quello del prossimo. Non è un passaggio semplice, perché i motivi che alimentano la durezza del cuore continuano a riproporsi e la giustificano con veemenza. La durezza del cuore si nutre delle mie inesorabili ragioni, delle ragioni dogmatiche del sistema economico-finanziario, delle ragioni di una legge evocata e utilizzata in maniera ipocrita, spesso a danno di chi è più debole e più povero. La durezza del cuore diventa il carcere della Parola di Dio e non la buona terra nella quale può fiorire e fruttificare. D’altra parte, la tenerezza non è una specie di ammorbidente che attutisce le inevitabili spigolosità della vicenda umana. Essa consiste essenzialmente nella comprensione di ogni persona nella sua interezza. Il gesto rivelatore della tenerezza di cuore è l’abbraccio che accoglie e raccoglie tutto di una persona. È l’abbraccio di Dio che diventa liberante e risuscita in noi la possibilità di una vita contrassegnata fondamentalmente dall’amore.
Il passaggio dal timore all’amore
Anche questa è una conversione difficile, in un tempo in cui l’esperienza dell’isolamento, dell’abbandono e della solitudine, del sospetto e del pregiudizio, della necessità del successo e dell’esposizione al fallimento, alimentano una paura diffusa. Sembra che timori di ogni genere siano il nostro pane quotidiano: paura di catastrofi, paura di invasioni, paura della crisi, paura del futuro, paura dell’altro, paura di se stessi e di non farcela e alla fine paura di Dio. E strano come in un tempo di evidente indifferenza a Dio, lo si evochi nelle situazioni dolorose come se fosse la causa di tutti i nostri mali, addirittura come se fosse un castigamatti che il più delle volte sbaglia il bersaglio della sua ira ingiustificata. E strano come in società fortemente sviluppate dal punto di vista scientifico e tecnologico la superstizione più infantile trovi ampia accoglienza e considerazione. La rivelazione fondamentale del Vangelo è quella del radicale amore di Dio, donato definitivamente, totalmente e universalmente nella persona di Gesù: è un amore che libera dal potere del timore. Siamo dunque chiamati ad uscire dalla schiavitù della paura e incamminarci sulla strada dell’amore aperta dal Signore Gesù.
La rivelazione fondamentale del vangelo è quella del radicale amore di dio, donato definitivamente, totalmente e universalmente nella persona di Gesù: è un amore che libera dal potere del timore.
Il passaggio dal giudizio alla misericordia
Non si tratta di avvallare alcuna convivenza con il male e il peccato e neppure di rinunciare a quella capacità tutta umana di assumere una posizione limpida davanti al bene e al male; il giudizio è espressione di quella connotazione umana veramente qualificante che prende il nome di coscienza morale. Si tratta piuttosto di uscire da una mentalità giudicante e giudicatrice, sempre pronta a sentenziare ancor prima di capire e soprattutto a individuare colpe e colpevoli, prima che cause e responsabilità. A nessuno piace essere condannato, ma neppure giudicato: non sto parlando della necessità sociale di garantire la giustizia attraverso la funzione giudicante; piuttosto intendo quel sottile o plateale atteggiamento che tende a metter l’altro all’angolo, a farlo sentire in colpa, ad alimentare la sua umiliazione. La misericordia non è un’amnistia generalizzata, tanto meno una giustificazione al relativismo morale; non è l’anestesia della coscienza e della responsabilità. E una disposizione più alta, più comprensiva della grandezza di ogni essere umano e insieme della sua miseria; è una possibilità di riscatto e di risurrezione offerta a ciascuno; è la rivelazione del volto di Dio, come Gesù ci consegna. E quella sapiente pratica, insegnata da Papa Giovanni, capace di distinguere l’errore dall’errante, il peccatore dal peccato, condannando con chiarezza il primo e donando la possibilità di ricominciamento al secondo. Esattamente il contrario di ciò che spesso avviene, per cui si è disposti a tollerare e accettare ogni idea, anche quella più insostenibile, e nello stesso tempo si diventa giudici implacabili nei confronti di coloro che hanno sbagliato.
Il passaggio dalle opere di misericordia ad un cuore misericordioso
Direi che è il passaggio fondamentale. Rappresenta anche il cuore del messaggio e della proposta contenuti in questa lettera. Se è vero che un’opera di misericordia dovrebbe nascere da un cuore misericordioso, altrettanto vero è che il cuore misericordioso non è semplicemente la somma di molte opere di misericordia. Questa riflessione si fa particolarmente seria e impegnativa nella nostra comunità, dove le opere di misericordia si moltiplicano in maniera impressionante in ogni circostanza e nei più diversi ambiti, ma nello stesso tempo si manifestano idee, sentimenti, prese di posizione, giudizi e comportamenti sociali che sono l’esatto contrario di quelle opere. In questo senso ritengo che l’itinerario che stiamo proponendo possa diventare un’occasione propizia perché le opere di misericordia plasmino la nostra mente e il nostro cuore. Se riteniamo che il Vangelo e l’Eucaristia siano capaci di dar forma alle nostre esistenze personali e comunitarie, tanto più coltiviamo la convinzione che l’esercizio della Carità possa diventare una strada su cui avviene la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne.
Se riteniamo che il vangelo e l'eucaristia siano capaci di dar forma alle nostre esistenze personali e comunitarie, tanto più coltiviamo la convinzione che l'esercizio della carità possa diventare una strada su cui avviene la trasformazione del cuore.
La direzione
Questo necessario e fondamentale processo di conversione, mai compiuto definitivamente e che non riguarda soltanto gli operatori della Carità, gli animatori della Caritas o i volontari delle Associazioni, ma l’intera comunità, assume una direzione che vorrei rappresentare con cinque verbi. Sono i verbi adottati per vivere in modo significativo il prossimo Convegno della Chiesa italiana che si terrà a Firenze, dal titolo “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. In questi anni la Chiesa in Italia ha privilegiato l’attenzione agli aspetti educativi della comunità: si tratta ora di dare slancio e concretezza a questo impegno, condividendo una visione dell’uomo, non astratta e calata dall’alto, ma concreta e sperimentata soprattutto nell’incontro con il povero, il quale diventa protagonista di un cambiamento di visione, secondo il messaggio del Vangelo. I verbi adottati dal Convegno e anche da noi, ci aiutano a definire la direzione del nostro cammino per divenire capaci di Carità.
Uscire
Significa superare forme consolidate, strutture consolidate, servizi consolidati. Il verbo, usato frequentemente da Papa Francesco, sollecita la disposizione a proiettarsi e raggiungere le molteplici situazioni che non sono comprese dai confini rassicuranti di istituzioni e proposte tradizionali. Sono le periferie esistenziali della povertà, della sofferenza, dell’esclusione che siamo chiamati a raggiungere in stile missionario ed evangelico. È una disposizione a stare insieme a tutti, insieme a coloro con cui nessuno vuol stare, insieme a chi non crede, per rispondere secondo il Vangelo alle istanze fondamentali dell’umanità. Le frontiere non saranno allora confini da difendere o luoghi avanzati da raggiungere da parte di qualche coraggioso, ma occasioni di incontro e di condivisione. La parrocchia, così rilevante oggi come nel passato, è chiamata a superare ogni tentazione autoreferenziale e le innumerevoli opere della nostra Diocesi sono provocate ad assumere maggiore leggerezza, maggior dinamismo propositivo, maggior elasticità e agilità nel cogliere le profonde attese dei nostri contemporanei, non lasciandosi condizionare in modo eccessivo dalla preoccupazione, per certi versi legittima, dell'autoconservazione. Non possiamo impegnare la maggior parte delle nostre energie a mantenere le opere, lasciando le poche energie che restano a perseguire con vivacità evangelica le finalità per cui esistono: penso alle opere sociali, assistenziali, sanitarie, culturali, educative e scolastiche, familiari, caritative, mediatiche... Le stesse strutture immobiliari di cui disponiamo debbono esser contrassegnate maggiormente da questo stile.
Annunciare
Significa ripensare i nostri linguaggi e le forme con cui comunichiamo il Vangelo. La consapevolezza che il Vangelo si dona e non si impone, che la libertà di ciascuno può disporsi ad accoglierlo o a rifiutarlo, che non si tratta di accomodare il Vangelo per renderlo maggiormente appetibile allo stomaco contemporaneo, che la stessa vicenda di Gesù è contrassegnata dall’incomprensione e dal rifiuto fino alla crocifissione, non alleggerisce per nulla l’impegno a individuare vie per raggiungere il cuore delle persone e le loro condizioni che gridano il bisogno di speranza. Quando parliamo di linguaggi, non intendiamo semplicemente un vocabolario: spesso utilizziamo parole che non vengono assolutamente comprese, adottiamo stili che non sono capiti, ci esprimiamo con un linguaggio per addetti ai lavori. Parlare di linguaggi significa creare possibilità di comunicazione, di intesa, di coinvolgimento che permettano di incontrarsi attorno alla ricchezza dell’umanità, alle sue povertà ed attese, alla ricerca di significati e di Dio stesso. Faccio alcuni esempi. In questi mesi ho evocato più volte l’esperienza che ho condiviso con i giovani nel pellegrinaggio a piedi da Assisi a Roma, culminato con l’indimenticabile incontro con il Papa: mi sono reso conto che “camminare insieme” è un linguaggio che permette di entrare in comunicazione. Ultimamente, nel viaggio missionario in Bolivia, ho avuto modo di apprezzare il linguaggio di immagini, parole, gesti, modi di porsi dei giovani missionari che aprono nuove prospettive all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Il modo di essere, di stare, di incontrare e di parlare del Papa, ci dice di un linguaggio che è capace di raggiungere i cuori e anche le intelligenze e i grandi mezzi della comunicazione. Siamo consapevoli che il linguaggio decisivo rimane quello della testimonianza: l’indicazione francescana di annunciare il Vangelo “se necessario anche con le parole”, privilegiando la vita vissuta, trova conferma nelle splendide parole del Beato Paolo VI, quando scrive che il mondo contemporaneo preferisce ascoltare i testimoni più che i maestri e se ascolta i maestri è perché sono testimoni. Il linguaggio del Vangelo assume due connotazioni che il magistero di Papa Francesco ci ricorda in continuazione: sono quelle dell’accoglienza e dell’accompagnamento. La sua lettera Evangelii Gaudium approfondisce le caratteristiche di queste due disposizioni, che non sono facoltative e nemmeno scontate* Si tratta di compiere uno sforzo di approfondimento per comprendere e sperimentare in maniera sempre più evangelica queste due dimensioni. La loro importanza è decisiva per tutti: per i vicini e per i lontani, per i giovani e gli anziani, per i ricchi e per i poveri. Si tratta di una modalità che privilegia l’ascolto, l’incontro, la pazienza, la relazione personale. Infine, non dimentichiamo che la stessa testimonianza della Carità deve lasciar trasparire non solo il nostro cuore, ma il cuore stesso di Dio e diventare rivelazione del suo Volto: non compiamo opere di Carità per conquistarci seguaci, ma compiamo le opere della Carità perché gli uomini “vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio, vostro Padre”.
Abitare
Significa rappresentare la possibilità di diventare una comunità cristiana, in relazione con altre comunità e con il territorio. Si è cittadini del mondo, se si diventa capaci di abitare concretamente la propria città, il proprio paese, il proprio villaggio; si è cristiani dallo sguardo ampio, se i nostri occhi sanno concretamente soffermarsi su coloro che vivono insieme a noi. Diventiamo capaci di Carità nella misura in cui abitiamo concretamente le relazioni che stabiliamo, superando la tentazione di un nomadismo superficiale e irresponsabile. Il pericolo che corrono le grandi organizzazioni della Carità e della Solidarietà umana è quello della lontananza, della freddezza, del mancato coinvolgimento personale. Certamente anche chi studia i grandi e gravi problemi dell’umanità, chi assume responsabilità vaste, chi gestisce grosse organizzazioni, è nella condizione di offrire una testimonianza della Carità nella misura in cui questo impegno venga segnato dallo stile e dai criteri del Vangelo. Lo stesso impegno politico si pone sotto questa luce, divenendo forma concreta e alta della Carità. Il verbo “abitare” evoca la necessità di coltivare l’attenzione e la cura delle situazioni concrete, dei bisogni reali, delle relazioni personali. Il verbo “abitare” indica anche la necessità di promuovere concretamente una diffusa disposizione al servizio per il bene di ciascuno e dell’intera comunità. Perché la comunità cristiana e di tutti gli uomini diventi una casa e non sia semplicemente un albergo, è necessario coltivare una disposizione al servizio che manifesti vicinanza, condivisione e risposta a bisogni reali: un servizio non solo di qualcuno, ma che rappresenti lo stile di un’intera comunità, “una Carità di popolo”. E uno stile che privilegia la sobrietà dei mezzi e la ricchezza delle relazioni, l’attenzione a tutti e la preferenza per i poveri.
Educare
Significa privilegiare il valore dell’esperienza, sia nei suoi aspetti eccezionali che in quelli continuativi e quotidiani, accompagnandola continuamente con la sapiente interpretazione, rielaborazione e assimilazione. La Carità nutrita dall’ascolto della Parola e dal Pane dell’Eucaristia, esige di essere concretamente sperimentata in ogni ambito di vita. E il principio generatore della vita secondo il Vangelo, della sensatezza e bellezza di questa vita. L’esperienza della Carità ha un luogo decisivo nella famiglia, in cui proprio all’interno delle relazioni che vi si stabiliscono si “apprende” e assimila uno stile di amare. Anche la comunità cristiana è luogo decisivo di questa scuola, come pure i molteplici fronti delle attese e dei bisogni della persona umana. D’altra parte non si tratta solo di moltiplicare le esperienze di Carità, ma di far sì che diventino una via per assimilare uno stile, un criterio, il principio vitale dell’amore stesso di Gesù. Educare alla Carità e lasciarci educare dalla Carità è il proposito fondamentale dell’itinerario di quest’anno, come ho già ricordato. In questo senso è necessario promuovere e riconoscere ecclesialmente e socialmente la responsabilità educativa di ogni adulto e la condivisione di valori e di stili ispirati alla Carità evangelica, superando una neutralità indifferente e un pluralismo dispersivo e vuoto.
Trasfigurare
Significa alimentare il rapporto tra fede, Grazia e vita. Sarà proprio questo verbo ad aprire le porte della Carità su ogni dimensione della vita umana. L’opera di trasfigurazione è essenzialmente frutto dello Spirito Santo, che ci raggiunge particolarmente nella Parola di Dio e nei Sacramenti ed è capace di dare forma secondo il Vangelo all’esistenza umana. Si tratta di un’opera che non si compie in modo magico e neppure facile: al dono dello Spirito di Dio è necessario che corrisponda l’adesione libera e convinta della fede dell’uomo e l’attuazione delle sue scelte interiori. Questo dialogo tra la Grazia e la Fede è capace di generare un vita nuova, la cui caratteristica fondamentale è proprio la Carità. Questo processo di trasfigurazione dell’esistenza di ciascuno diventa l’inizio di molti altri processi capaci di trasfigurare i molteplici aspetti della vita di ogni uomo e dell’intera comunità umana, nel segno della Carità.
La trasfigurazione
Ancora una volta desidero sottolineare i due cardini che ispirano tutta questa lettera: promuovere la crescita di una mentalità decisamente connotata dalla Carità; alimentare la consapevolezza che la Carità non è un settore della vita della comunità, ma è l’amore di Dio che pervade ogni dimensione della vita comunitaria e personale. Nella prospettiva del Convegno ecclesiale, tenutosi dieci anni orsono a Verona, desidero raccogliere alcune dimensioni dell’esistenza umana in cinque ambiti, tentando di interpretarli alla luce della trasfigurazione di cui è capace la Carità.
Le relazioni d ’amore
Siamo tutti consapevoli di quanto siano decisive nella vita di ogni persona. Si tratta di relazioni con caratteristiche molto diverse, dalle quali dipende in maniera evidente la felicità dell’esistenza umana. Gran parte di queste relazioni hanno trovato e trovano il loro grembo in quella comunità che abbiamo imparato a chiamare famiglia, il cui nucleo generatore è rappresentato dalla relazione d’amore tra un uomo e una donna, stabilita nel matrimonio. Mi domando: come la Carità è capace di trasfigurare questa relazione, le relazioni familiari e tutte le relazioni che coinvolgono i nostri sentimenti, le nostre passioni, le nostre scelte? Ho l’impressione che in questi decenni, le proposte delle comunità cristiane e dei loro pastori non siano riuscite a toccare e trasformare il cuore di coloro che vivono questi legami: è come se parlassimo una lingua sconosciuta e non riuscissimo a stabilire un dialogo interessante e utile con donne e uomini, giovani e vecchi, attorno a queste esperienze. Queste proposte mi sembrano contrassegnate da una tensione: da una parte la rappresentazione di modelli ideali che spesso non riescono ad incarnarsi nelle condizioni di vita del mondo contemporaneo; dall’altra parte, una grande difficoltà a proporre cammini percorribili e convincenti, scivolando spesso in proposte moraleggianti o del tutto generiche, che vengono avvertite come insignificanti da parte di molti. Le forme della Carità vissute in queste relazioni sono ricche e luminose, ma spesso sembrano evocare un contesto che non esiste più e che neppure va mitizzato. Parole come pazienza e sopportazione, rispetto ed aiuto, silenzio ed umiltà, fino alle più alte come perdono, dedizione, sacrificio, indicano caratteristiche sacrosante dell’amore, ma non sono state arricchite in maniera significativa dalle parole della libertà e della responsabilità, della consapevolezza e della dignità, della creatività e della gioia, della corporeità e della sessualità, della fragilità e della comprensione, della lucidità e del lavoro su di sé, della bellezza e della tenerezza, del piacere e dei sentimenti. Alcuni potrebbero dire che da anni queste dimensioni sono proposte ed entrate nella visione cristiana delle relazioni affettive, ma bisogna riconoscere che la gran parte, anche dei battezzati, non se ne è accorta. La trasfigurazione del mondo delle relazioni affettive e familiari alla luce della Carità, passa da un ascolto molto più convinto e praticato delle istanze di cui sono portatrici persone e famiglie, si sviluppa attraverso proposte di rielaborazione alla luce di competenze relazionali accurate e della freschezza del messaggio evangelico. Ritengo che l’impegno più urgente e decisivo sia quello di individuare persone che abbiamo le caratteristiche per entrare in dialogo costruttivo ed efficace con coloro che avvicinano la comunità cristiana: dai fidanzati e conviventi orientati al matrimonio, ai genitori che richiedono i sacramenti dell’Iniziazione cristiana per i loro figli, alle coppie che la comunità incontra in particolari passaggi della loro esistenza. Non penso che un servizio di questo genere possa realizzarsi in ogni parrocchia: mi sembra si debba privilegiare la possibilità di esperienze significative, condivise da più parrocchie, dai loro presbiteri, dai consigli pastorali e dagli operatori di pastorale familiare. Una seconda indicazione è rappresentata dalla necessità di declinare insieme le attenzioni pastorali al mondo giovanile con quelle destinate alla famiglia e alle relazioni affettive. Di fatto si è proceduto per linee parallele, con sconfinamenti che non hanno valorizzato le competenze e le sensibilità presenti nei due ambiti pastorali, con un impoverimento di possibilità che la sinergia di questi approcci, unitamente a quello di natura vocazionale, può certamente favorire. Non sono poche le iniziative qualificate in questo senso: penso al Gruppo Samuele e al recente Gruppo Emmaus, ma è necessario che le ricadute dal punto di vista del metodo e dell’esito di queste proposte diventino più evidenti e più diffuse. La trasfigurazione che la Carità realizza nell’ambito delle relazioni affettive investe anche gli aspetti problematici e i passaggi critici che attraversano: anche in questo ambito mi sembra che scontiamo un ritardo non indifferente, riducendo l’ampiezza e la profondità delle dimensioni esistenziali di queste situazioni a questioni circoscritte, anche se di grande rilevanza, come l’ammissione ai Sacramenti di persone che vivono in condizioni non coerenti con l’insegnamento della Chiesa. In verità nella nostra Diocesi è nata e cresciuta l’esperienza de “La Casa”, proprio con l’intenzione di accogliere e accompagnare in maniera ampia e significativa coloro che vivono queste situazioni e si è andata creando una rete di Consultori di ispirazione cristiana, che offrono un servizio competente in situazioni critiche: ritengo che le ricadute pastorali di queste iniziative debbono essere considerate in modo più consapevole e accurato da parte di tutte le comunità parrocchiali e dei loro pastori. Sarà importante accompagnare con la preghiera e interpretare nella fede il prossimo Sinodo sulla Famiglia, non come una “partita” tra conservatori e progressisti, scadendo in logiche da tifoseria, ma come un’opportunità di tutto rilievo per rielaborare alla luce della Carità e della Misericordia il nostro modo di concepire e proporre l’insieme delle dimensioni relazionali ed affettive della persona umana. Indubbiamente la capacità comunicativa e la profonda umanità evangelica di Papa Francesco ci stanno aiutando in questa riproposizione del messaggio cristiano sulla famiglia e le relazioni affettive: le sue catechesi del mercoledì, dedicate a questi temi, possono rappresentare un aiuto concreto alla riflessione comunitaria e alle diverse proposte in questo ambito. La trasfigurazione di queste relazioni alla luce della Carità investe anche la dimensione pubblica delle relazioni d’amore a cominciare da quelle familiari. L’affermazione di logiche fortemente segnate dall’individualismo esasperato è andata di pari passo con la progressiva privatizzazione delle relazioni familiari, favorendone una fragilità e precarietà spesso del tutto ingiustificata. Non si tratta di imporre modelli cattolici ad una società evidentemente plurale, ma non desistiamo dal proporre, interloquire e dialogare con tutti, attorno a valori ed orientamenti che possono essere riconosciuti decisivi e fecondi oltre le appartenenze di natura religiosa e culturale, superando pregiudizi e incomprensioni che sono espressione di rigidi schemi di natura ideologica. Senza sperimentare, ringraziando il cielo e gli uomini, i devastanti scandali nazionali di alcuni soggetti cooperativistici, dobbiamo però riconoscere che la cultura della cooperazione ha lasciato troppo il passo all’organizzazione fine a se stessa e all’utilizzo di questi soggetti solo per ragioni strumentali. Le osservazioni che ho elencato non vogliono rappresentare un giudizio sull’impegno ideale, faticoso e competente di moltissimi soggetti lavorativi, ma evidenziare l’esigenza di un rilancio della cultura del lavoro: da sempre il lavoro genera cultura, particolarmente nel nostro territorio. La capacità trasfigurante della Carità raggiunge il mondo del lavoro, dei lavoratori e degli imprenditori, promuovendo una qualificazione e una produttività capaci di alimentare speranze inclusive, condivise, significative per le nuove generazioni; capaci anche di non rassegnarsi alla necessità di creare gli “scarti umani”, determinata dalle algide geometrie di organizzazione del lavoro. Ritengo veramente esaltante dal punto di vista umano e spirituale, valorizzare concretamente tutti i tentativi di creare percorsi di lavoro in cui le sinergie, le economie gestionali, le progettualità condivise, la promozione dei soggetti umani, gli strumenti di ricerca, rappresentino possibilità che aprono al futuro. Mi sembra necessario che l’ispirazione evangelica, alimentata dal principio della Carità, possa illuminare e innervare forme nuove di responsabilità e condivisione nel mondo del lavoro. Desidero che le attuali esperienze in cui la comunità cristiana è impegnata, non solo in forme di assistenza nei confronti di chi vive la precarietà o l’esclusione dal mondo del lavoro, ma di sostegno e promozione di nuove strade di solidarietà lavorativa, siano conosciute e sostenute sia a livello diocesano, come nelle realtà territoriali in cui si organizza la nostra Diocesi. L’intelligenza della Carità, insieme all’esigenza della giustizia sociale, rappresentano un autentico valore aggiunto nel rilancio del lavoro e dell’occupazione in forme autenticamente umane. Non è separato da questo discorso quello che porta la sigla della “festa”. La Carità è l’anima della festa secondo il Vangelo, perché promuove la celebrazione della festa nei suoi aspetti più intensamente umani. Penso alla gratuità, alla scioltezza delle relazioni, alla soddisfazione per risultati conseguiti insieme, alla gioia di traguardi familiari, a momenti in cui la comunità si riconosce. La Carità contribuisce alla trasfigurazione della festa sempre più esposta a tentazioni di efficienza organizzativa, di produttività economica, di esercizi di potere da parte di un gruppo piuttosto che di un altro, di rassegnato e qualche volta compulsivo consumismo. Qualche riflessione sulla festa nell’ambito della comunità cristiana l’ho condivisa nell’ultima Lettera pastorale. In questo momento vorrei sottolineare l’importanza della festa, riprendendo le parole di Papa Francesco: “Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. ... Anche nell’ambiente di lavoro, a volte - senza venire meno ai doveri! -noi sappiamo «infiltrare» qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo..., è importante. E importante fare festa. Sono momenti di familiarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene! Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma «signori»” (Udienza del 12 agosto 2015).
Le fragilità
Amplissimo è l’ambito delle fragilità, in cui la forza trasfigurante della Carità riesce a compiere autentici miracoli e a rinnovare quella speranza che è il frutto dell’amore. Si tratta di fragilità materiali, psicologiche e spirituali: personali, familiari e sociali. Sono fragilità che toccano la salute del corpo, la serenità personale, l’ampio e diversificato mondo delle relazioni, le progettualità e infine tutte le condizioni che determinano esiti segnati dalla solitudine, dall’abbandono, dalla discriminazione e addirittura dal disprezzo. Sono anche tutte le situazioni di precarietà sociale che riescono ad incidere profondamente nell’animo e nelle speranze di chi le deve subire. La prima risposta è quella preventiva: creare, cioè, le condizioni diffuse perché le situazioni di fragilità non si verifichino e se questo avviene non diventino troppo gravi. Tutto ciò che appartiene al mondo dell’equità e della giustizia sociale è caro al cristiano, è espressione concreta di Carità, è necessità morale a cui non può sottrarsi. Egoismi di parte non sono mai giustificati dalla fede e dalla testimonianza di un Vangelo che si rivolge a tutti, senza discriminazioni. L’impegno per la giustizia si accompagna alla coltivazione convinta di relazioni significative a livello familiare, comunitario, sociale e lavorativo, che rappresentano il tessuto organico in cui si sviluppa la vita di ciascuno. La solitudine radicale è veramente l’esito perverso di un individualismo al quale ci siamo concessi e ci stiamo concedendo con un’incoscienza presuntuosa e divisiva le cui conseguenze sono veramente distruttive. La cultura della solidarietà sembra essere relegata ai margini della costruzione della società e affidata al volontariato e alla Chiesa, come se rappresentassero una specie di riserva sociale per attenuare i risultati di una cultura di tutt’altro segno. Anche le forze sociali e politiche che hanno storicamente rappresentato questo valore, si sono sempre più appiattite e a volte identificate con le espressioni più radicali dell’individualismo contemporaneo. Sempre più fatichiamo a trovare luoghi in cui condividere l’impegno per l’edificazione comunitaria e responsabile della società: privilegiamo invece le logiche competitive e meritocratiche a spese non solo dei più deboli, ma dell’edificazione di una società che non sia dominata dai criteri esclusivi dell’efficienza e del successo. In questi anni, pur nella necessaria purificazione da ogni pesantezza di natura statalista, stiamo orientandoci ad una forma di Stato che, utilizzando in modo deformato il principio di sussidiarietà, tende ad abbandonare le fragilità al “buon cuore” di cittadini volonterosi e della Chiesa, accusata poi di arricchirsi sulle spalle dei contribuenti. Siamo ancora lontani da una seria e politicamente impegnata definizione di condizioni legislative e politiche per un welfare di comunità, che non sia soltanto una bella espressione o, peggio ancora, un alibi al venir meno di responsabilità sociali ineludibili. La trasfigurazione operata da una Carità pervasiva, alimenta nella coscienza del cristiano il senso della responsabilità in ordine alla costruzione di una società giusta, soprattutto con i più deboli e in ordine alla tessitura di relazioni impegnative che garantiscano dal basso una coesione sociale capace di farsi carico delle condizioni di fragilità umana alle quali tutti siamo esposti. Insieme alle riflessioni relative al momento preventivo, vogliamo soffermarci sulla vastità e la ricchezza delle risposte alle situazioni di fragilità. E impressionante la quantità delle opere che rispondono a questa esigenza e l’impegno delle nostre comunità cristiane e delle associazioni e fondazioni di ispirazione cristiana, senza dimenticare le altre, in questa direzione. Sono state censite in Diocesi di Bergamo 363 opere e servizi, di cui 3 nell’area sanitaria, 84 in quella sociosanitaria e 276 in quella socio-assistenziale. Le aree anziani e minori sono quelle dove si orientano maggiormente le attenzioni, le opere e i servizi. In questi ultimi anni, sono aumentate anche quelle destinate agli adulti e alle famiglie. Desidero farmi interprete di un corale sentimento di profonda gratitudine per coloro che si prodigano, a volte con generosità eroica, negli incalcolabili campi della risposta alle fragilità. Si tratta di risposte a volte molto semplici, altre volte molto complesse, che scaturiscono non solo nell’orizzonte dei diritti e dei doveri della persona e della società, ma nell’ambito dell’amore e della solidarietà umana. Vi sono opere, che nella fantasia della Carità e nella competenza intelligente che l’accompagna, rispondono a fragilità dimenticate e poco sostenute dall’organizzazione dello Stato. Vi sono anche stili di vita che un’infinità di persone adottano quotidianamente nell’ambito del loro lavoro e che trasformano i loro compiti e le loro mansioni in autentiche testimonianze d’amore. Queste opere, soprattutto quando realizzate nell’ambito della comunità cristiana, devono corrispondere ad alcuni criteri che indico in maniera essenziale. Il criterio della promozione della persona. Se non possiamo sottrarci in nome della Carità a dare una risposta immediata ai tanti bisogni e alle tante emergenze personali e sociali che si manifestano, non possiamo rinunciare a sostenere soprattutto i processi di liberazione, di riscatto e di promozione della persona, che corrispondono alla sua intima dignità e la introducono nella possibilità di esercitarla. Il criterio dell’intelligenza della Carità. Si tratta di superare la tentazione elitaria della Carità intelligente, che è sempre discriminante, per abbracciare il criterio dell’intelligenza della Carità. Questa è la comprensione e il giudizio sulle cose, sui meccanismi sociali, sulle situazioni personali che si alimenta ai contenuti e alla caratteristiche della Carità evangelica. Sotto questo profilo, l’intelligenza della Carità diventa capace di alimentare il coraggio della profezia: denuncia critica delle contraddizioni della società e delle sue ipocrisie, ingiustizie e violenze e insieme apertura di strade e possibilità liberanti, su territori e confini abbandonati dai più. Il criterio del “segno”. Le nostre opere devono rappresentare un segno più che una soluzione definitiva: esse precedono, sono ispirate alla gratuità, coltivano il desiderio di un’esemplarità sociale. Non devono consolidarsi troppo, ma fermentare la crescita di tutta la società nelle direzioni che hanno individuato e rappresentato. Poi bisogna trovare il coraggio per andare altrove e raggiungere altre fragilità, altre periferie esistenziali. Un quarto criterio consiste nel lavoro condiviso, nel lavoro in rete, in collaborazioni sempre più efficaci. Esiste nella comunità cristiana, in nome di una concretezza generosa e responsabile, la tentazione di lavorare da soli, di guardare da lontano esperienze simili, di privilegiare le differenze più che le somiglianze. Oggi la risposta alla fragilità diffusa ci richiede forme di collaborazione che non si risolvano nella moltiplicazione di riunioni, ma piuttosto nell’attivazione di processi competenti che alimentino risposte efficaci e sinergiche. Un quinto criterio si ispira alle provocazioni di Papa Francesco: si tratta di una visione diversa del povero e della persona nella sua fragilità. Il Papa continuamente e con forza ci chiede di passare da una visione del povero e del fragile come destinatario della nostra opera, ad una considerazione di costoro come protagonisti non solo del loro riscatto, ma della promozione di una civiltà più umana: vedere il mondo con gli occhi dei poveri, cambiare il mondo a partire dal protagonismo dei poveri, fare della liberazione del povero la misura della nostra crescita umana. Si tratta di un cambiamento radicale, ma profondamente cristiano: nel cuore della fede del cristiano ci sta il Crocifisso, il debole, il fragile, l’impotente, il fallito, il piagato. Lui è il Risorto, il principio della Risurrezione e della vita nuova. Si tratta dunque non solo di riconoscere il Crocifisso nei crocifissi della vita e di avvicinarsi a loro con amore, ma di riconoscere in loro l’insegnamento e la potenza che scaturiscono dal Crocifìsso, una potenza che cambia la storia. Un ulteriore criterio va ricordato: la Carità interpella personalmente ciascuno, non può essere delegata, non può essere a tempo, non può manifestarsi solo in un particolare spazio. Non possiamo fare a pezzi il cuore. Non c’è persona, per quanto povera, debole, fragile che non possa esercitare la Carità: sotto questo profilo la grande pagina del giudizio universale che l’evangelista Matteo ci consegna, la descrizione delle opere di misericordia corporali e spirituali e il comandamento dell’amore del prossimo, rappresentano riferimenti che interpellano ogni cristiano. Questa lunga riflessione sulla trasfigurazione delle fragilità da parte della Carità, vuole descrivere una realtà meravigliosa e nutrire la consapevolezza che le opere della Carità sono necessarie, ma ancor più necessario è un cuore che ama secondo il Vangelo. Le mani della Carità rivelino e alimentino un cuore di Carità.
La tradizione
Sembra che nell’Occidente contemporaneo, la cultura e l’arte, la scienza e la tecnica, si sviluppino a prescindere dalla fede e anche dalla Carità. La constatazione è provocante, se pensiamo che gran parte del patrimonio artistico e culturale dello stesso Occidente è ispirata proprio da queste sorgenti. Per altro, è da un verso divertente e dall’altro triste e qualche volta indisponente, constatare come gran parte di questo patrimonio venga presentato ai nostri contemporanei come del tutto avulso dall’humus culturale e religioso che lo ha prodotto. Ritengo che esista una Carità culturale che non consiste solo nell’amore per la verità, ma nell’amore per ogni persona umana espresso nel riconoscimento e nella comunicazione della verità, della bellezza, della bontà, della giustizia e della santità attraverso i canali della cultura e dell’arte, della scienza e della tecnica. Per favorire questi processi è necessario il coraggio dell’apertura e della coltivazione di un dialogo “interessante” con la cultura e l’arte contemporanea, con i diversi settori della scienza, della ricerca e della tecnica e con tutti coloro che vi lavorano. E un impegno molto difficile, a fronte di un’indifferenza che sembra indisposta a corrispondere a questo dialogo; nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa possibilità esiste e non sono poche le persone che in diversi modi vi si dispongono. Per quanto riguarda la comunità cristiana, la trasfigurazione della Carità nell’ambito della cultura esige di percorrere con determinazione ed entusiasmo spirituale queste vie: la via dei linguaggi, la via della comunicazione mediatica, la via dell’educazione. Queste vie non condurranno da nessuna parte, se non saranno tracciate dalla riflessione teologica in tutti i suoi aspetti: sotto questo profilo, il contributo che in modo del tutto significativo viene offerto nella nostra Diocesi dalla Scuola di Teologia del Seminario diocesano si rivela quanto mai necessario. Incoraggio tutti coloro che vi lavorano non solo a continuare questo prezioso servizio, ma a mantenerlo sempre qualificato e capace di illuminare la vita, le scelte e la pastorale della nostra Diocesi. I processi di trasmissione della fede e di elaborazione di una cultura fermentata evangelicamente non possono più essere scontati. Alcuni ritengono che prospettive di indole culturale siano appannaggio degli addetti ai lavori e che l’impegno pastorale disponga già di tutti gli strumenti necessari ai propri compiti. In questo modo esprimono comunque una visione culturale della vita della Chiesa e della sua missione, ma chiudono gli occhi davanti alle evidenti trasformazioni di mentalità e vi si avvicinano in maniera del tutto approssimativa, in nome della pratica, del buon cuore e della fede. Ritengo che la Carità e, in questo caso, proprio la Carità pastorale, debba ispirare un’ampia ricerca nel campo del linguaggio, che non consiste semplicemente in una sostituzione di parole: si tratta di comunicare in maniera significativa l’Evangelo e il suo appello alla fede nel contesto della cultura del mondo contemporaneo. La via della comunicazione mediatica non può essere considerata ancora come una forma di “amplificazione” o comunque di moltiplicazione quantitativa del messaggio evangelico. Si tratta non solo di utilizzare i media e le loro potenzialità, ma di abitare nel mondo della comunicazione sempre più pervasivo, dove le forme di connessione assumono caratteristiche che sfuggono all’attenzione e al modo di concepire la trasmissione della fede da parte di molti di noi. E necessario dunque promuovere la formazione di persone che sappiano muoversi in questo mondo e aiutino l’intera comunità ad abitarlo. Questo discorso assume un particolare rilievo nella nostra Diocesi, che raccoglie una tradizione ecclesiale e professionale in questo ambito, quasi unica nella Chiesa. Il fatto di aver ereditato questa enorme possibilità, non può alimentare una specie di pigro orgoglio o al contrario una critica inconcludente: si tratta invece di rinnovare la coscienza di ciò che rappresenta questo patrimonio e di raccoglierne le potenzialità formative in maniera molto più responsabile. Nell’ambito della Carità della cultura si colloca l’enorme impegno educativo della comunità cristiana, cominciando da quello ancora determinante delle famiglie cristiane. Quanto oggi la comunità cristiana aiuta le famiglie in quest’opera? Con quali mezzi? Con quale consapevolezza che non sia solo recriminazione nei confronti dei doveri della famiglia che riteniamo disattesi? Alle famiglie si unisce il mondo della scuola pubblica, nelle sue componenti statali e cattoliche, soprattutto nella persona degli insegnanti e di coloro che ne hanno la responsabilità gestionale. Desidero incoraggiare tutti coloro che lavorano in questo ambito a ricercare forme di sinergia educativa attorno a valori effettivamente condivisi e praticati e alla passione per le nuove generazioni, perché diventino esperienza concreta nell’ambito delle dinamiche scolastiche. Nell’ambito educativo, un’altra realtà di tutto rilievo e del tutto caratteristica della nostra Diocesi è rappresentata dagli Oratori. A volte avverto giudizi rassegnati su questa proposta, dettati dal presunto venir meno della loro capacità educativa, sostituita da proposte aggregative giudicate contraddittorie con i valori che ispirano l’Oratorio stesso; è una rassegnazione alimentata anche dalla diminuzione di preti giovani che si giochino con convinzione in questo ambito. La ragione più immediata e convincente per rinnovare lo slancio e per ringraziare tutti coloro che lo sostengono, è la constatazione molto pratica ed evidente che dove non esistono gli Oratori, le possibilità formative della comunità cristiana nei confronti delle giovani generazioni sono fortemente limitate. In questo momento, in molte regioni d’Italia e del mondo, si guarda a questo modello educativo con una grande e fiduciosa attenzione. Ricerchiamo forme nuove non solo di proposta, ma anche di gestione delle responsabilità, privilegiando quelle di indole comunitaria, espressione di una connotazione dei nostri Oratori, sentiti da sempre come espressione della comunità intera. Proprio riflettendo sugli Oratori emerge una istanza relativamente nuova che l’Oratorio da solo non può corrispondere: si tratta della proposta del Vangelo e della fede ai giovani dai vent’anni in poi. Il loro impegno nel lavoro o a livello universitario, la forte e ampia mobilità, rendono meno efficace la proposta oratoriana, se non per coloro che vi si impegnano direttamente. Ho chiesto a coloro che curano questo ambito uno sforzo particolare, non finalizzato solo a qualche evento pur bello e coinvolgente, ma alla possibilità diffusa di una proposta significativa della fede e di sperimentarne il valore nella vita di persone giovani. Tra queste proposte brillano quelle missionarie e caritative, in cui si manifestano le caratteristiche proprie di un cuore e di una mente giovane e si possono sperimentare in modo intenso le istanze fondamentali del Vangelo. Nell’ambito della Carità trasfigurante il mondo della “tradizione” vorrei collocare la considerazione dell’importanza pastorale delle nostre tradizioni e della loro forza formativa. La riscoperta della religiosità popolare e le considerazioni ricorrenti di Papa Francesco ci impegnano ad una seria considerazione di queste espressioni della fede, che si rivelano capaci di parlare ancora a molti e di generazioni diverse. La forza delle tradizioni diffuse si manifesta nella nostra Diocesi non solo per l’abbondanza in termini quantitativi, ma per il rapporto ancora consistente ed evidente con le dimensioni profonde della fede. Ho più volte ricordato non solo la meraviglia davanti a questa realtà, ma la consapevolezza che le tradizioni non sono scatole rimaste vuote, ma piuttosto scrigni capaci di custodire la fede. Ho detto altrettanto spesso che però il tesoro della fede è vivo: lo scrigno lo custodisce, ma rischia anche di soffocarlo. E necessario quindi alimentare il rapporto tra tradizioni, crescita nella fede e vita cristiana nel mondo contemporaneo, superando forme di nostalgia o di affermazione del passato, che qualche volta possono assumere caratteristiche di chiusura non solo alle novità, ma alle istanze che la proposta evangelica e la coscienza cristiana debbono raccogliere dal mondo contemporaneo. Dentro questo quadro che vede protagonista la Carità dell’intelligenza, è un’utopia o una pericolosa ambizione immaginare di disegnare le linee di una proposta formativa che abbracci tutta la vita e la missione della nostra Chiesa?
La cittadinanza
La fede in Gesù Cristo e l’adesione al suo Vangelo impegna il cristiano ad una convinta appartenenza e ad una costruttiva partecipazione alla città di tutti. L’idea di cittadinanza indica un’identità ed un’appartenenza, l’esercizio equilibrato di diritti e di doveri, la consapevolezza di una responsabilità partecipativa, una prospettiva contrassegnata dal valore del bene comune, la condivisione di quelle forme che garantiscono la pluralità reale e 1 esercizio di una sostanziale democrazia, il superamento di ogni visione che riconduca l’esperienza umana alla sfera degli interessi privati, lasciando alla responsabilità pubblica il compito di regolarli. Dobbiamo riconoscere che la coscienza della cittadinanza da parte di tutti, anche dei cristiani, in questo momento è molto confusa. Portiamo il retaggio di visioni superate come quella comunista e quella capitalista; abbiamo smarrito il forte dinamismo rappresentato dal movimento cattolico nelle sue diverse declinazioni; abbiamo aperto gli orizzonti di cittadinanza all’Europa, ma li vediamo oscurati dalla perdita dei valori ideali che l’hanno costituita nei suoi inizi; siamo coinvolti in una globalizzazione che ci trasforma in cittadini del mondo, ma soltanto dal punto di vista economico, dominato da logiche che sfuggono ad ogni controllo democratico; viviamo un rapporto con l’ambiente che rischia di diventare sempre più problematico. Anche nelle dimensioni più contenute, rappresentate dalle nostre comunità locali, viviamo situazioni frammentate, difficoltà di condivisione, conflittualità sbracate, forme di esclusione alimentate dalla paura, dal risentimento e dall’egoismo. Stentiamo a sentirci rappresentati in maniera adeguata a livello politico e sociale, siamo tentati da scorciatoie di indole populista che da sempre si rivelano un inganno di quello stesso popolo a cui si appellano e nello stesso tempo ci ritiriamo sempre più in forme di difesa dei confini del nostro privato o alimentiamo un volontariato che sembra incapace di nutrire una cultura delle responsabilità sociali e politiche. In questo quadro, forse eccessivamente oscuro, avvertiamo la presenza dinamica di soggetti nuovi di partecipazione, una pervicace determinazione da parte di cattolici e di comunità cristiane a non sottrarsi a questo impegno e ad alimentarlo in termini formativi più
di tanti altri, il faticoso tentativo di rinnovamento di rappresentanze di ordine politico, sociale ed economico, una seria considerazione dei problemi ambientali e la promozione di un’ecologia integrale, la presenza diffusa di amministrazioni locali caratterizzate da onestà, vicinanza alla comunità e ai suoi problemi e da visioni che superano la gestione ordinaria e aprono nuove prospettive. Desidero riaffermare la necessità di un risveglio della coscienza cristiana in questa direzione. Una coscienza che non faccia della fede una bandiera da sventolare, ma piuttosto il lievito che fermenta l’insieme della vita sociale. Una coscienza chiara nei propri convincimenti, alimentati dalla conoscenza dei fondamenti dell’insegnamento sociale che scaturisce dal Vangelo, che permetta di sviluppare un dialogo sempre più necessario in una società plurale o di affrontare i prevedibili conflitti, che sono connaturati alla dimensione politica della vita, con lo stile proprio di coloro che si ispirano al Vangelo. Sempre più si creano spazi per l’affermazione dei diritti civili, che afferiscono a dimensioni delicate della vita umana come la famiglia, l’educazione, la sessualità, il rispetto della vita stessa, la cura e la salute. Il positivo riconoscimento di questi diritti è deformato da un greve individualismo di cui rischiamo di morire, da uno stravolgimento di indole ideologica di valori umani fino ad oggi condivisi e spesso affermati dalle più solenni codificazioni internazionali: non possiamo sottovalutare questa situazione, non per difesa di interessi di parte, ma per una passione nei confronti dell’umanità e della integrale dignità di ogni persona, che deve contraddistinguere la coscienza e l’azione del cristiano. Il domino globale dell’economia e della finanza, della comunicazione mediatica, della scienza e della tecnica, ci interpellano duramente circa le capacità delle attuali forme democratiche di non essere scavalcate in modo brutale da parte di questi poteri e di non essere condizionate totalmente da essi. Il rischio è che la democrazia, nelle sue istituzioni e nelle sue procedure, si riveli incapace di rappresentare adeguatamente le istanze di cui è portatrice, con il rischio di scivolare in una pura rappresentazione formale. Le stesse istanze di indole pragmatica, che sembrano corrispondere alle esigenze di soluzioni concrete, efficaci e veloci, non possono rappresentare una soluzione adeguata ad una visione integrale dell’uomo e della società, proprio perché prive di questa visione. Anzi, il rischio di questa impostazione è grave perché apre le porte ai poteri più forti, ad una diminuzione della solidarietà sociale, all’accettazione rassegnata del prezzo di “scarti umani” ritenuti inevitabili, da affidare al “buon cuore” della gente e della Chiesa. Il solidarismo di ispirazione cristiana, spesso irriso ed emarginato, rimane un contributo di umanizzazione della società che riteniamo abbia un significato sempre più grande. Ritengo che una strada praticabile, impegnativa e prospettica, quasi un laboratorio per imprese più grandi, sia rappresentata dalla realtà locale in cui la plausibilità dei valori evangelici si misura con la concretezza dei bisogni reali e con la possibilità di corrispondervi. La trasfigurazione che la Carità è capace di operare nell’ambito delle responsabilità di ciascun cristiano in campo sociale e politico, per una cittadinanza solidale e fraterna è tutt’altro che un buon sentimento, ma un’autentica possibilità di rigenerazione di questa dimensione della vita umana.
Desidero riaffermare la necessità di un risveglio della coscienza cristiana in questa direzione. una coscienza che non faccia della fede una bandiera da sventolare, ma piuttosto il lievito che fermenta l’insieme della vita sociale.
I criteri
Nelle riflessioni che ho condiviso, sono già indicati i criteri a cui si ispira la capacità di essere donne e uomini che credono, accolgono e testimoniano la Carità. Li riprendo in forma del tutto schematica, così che possano diventare strumento di interpretazione del nostro attuale impegno nella Carità e orientamenti per continuare il cammino
♦ Il criterio che ispira tutta la lettera e che più volte ho ricordato è rappresentato dalla necessità di maturare una mentalità, un’intelligenza delle cose, una cultura, contrassegnate dalla Carità, dal comandamento dell’amore. Le opere di misericordia, le opere di Carità, l’impegno solidale nelle sue diverse manifestazioni, devono diventare un’autentica scuola alla quale apprendere e assimilare la lezione della Carità evangelica perché dia forma a tutta la vita di un cristiano.
♦ La Carità del cristiano non è selettiva e discriminante: non sceglie il proprio prossimo, ma trasforma colui che crede nel Vangelo e nella Carità di Dio, in prossimo per ogni persona umana nel suo bisogno.
♦ Il povero e ogni persona nel suo limite, nella sua precarietà, nel suo bisogno non è solo un oggetto del nostro aiuto, ma è un attore del cambiamento della società alla luce di relazioni segnate dai principi della giustizia e della Carità. Se forme di assistenza urgente ed essenziali, rimarranno sempre necessarie, altrettanto necessario è il cammino intrapreso di riscatto e di promozione di ogni persona umana, a partire dalle concrete condizioni in cui vive e alle concrete possibilità di cui dispone.
♦ L’organizzazione, a volte molto complessa, della Carità a livello comunitario e sociale, non sortirà grandi cambiamenti se non è sostenuta dall’impegno che coinvolge ogni persona, ogni cristiano. La relazione personale, il “guardare negli occhi il povero”, lo stile di vita e di rapporto con gli altri, non sono sostituibili neanche dalle forme più organizzate della Carità o dai servizi sociali più efficienti. Da questo punto di vista non esiste persona che non possa esercitare la Carità e la solidarietà, qualsiasi sia la sua condizione. Non c’è povero, malato, bisognoso che non sia capace di un gesto d’amore. La promozione di relazioni personali, significative, di aiuto semplice e cordiale tra le persone che vivono in una comunità e verso le persone più bisognose è un percorso coerente con le considerazioni che abbiamo sviluppato.
♦ Vi è una dimensione profetica della Carità che merita di essere adottata come criterio delle opere della Carità, soprattutto le più complesse, e come giudizio sul loro stile e la loro necessità. In altre parole: molte delle grandi iniziative che segnano il progredire della nostra civiltà, sono espressione della Carità cristiana esercitata nella vita concreta delle singole persone e delle comunità nel loro complesso. In questo Anno della vita consacrata, desidero ricordare le grandi figure di Sante e di Santi bergamaschi che con sacrifici immensi hanno dato vita ad opere di Carità realmente profetiche: c’è una certa facilità a dimenticarli e a considerare con sufficienza coloro che ancora oggi ne incarnano la Missione, a cui desidero manifestare tutta la consapevole e affettuosa riconoscenza della Comunità diocesana. Spesso questa testimonianza anticipatrice della Chiesa, ha aperto la strada ad assunzioni di responsabilità sempre più ampie da parte della società e dello Stato. Quello che apparteneva al campo di Carità è entrato nel campo della giustizia e dei fondamentali diritti di ogni persona umana.
Le opere segno per lo stile con cui vengono attuate e per i bisogni a cui corrispondono rappresentano una parola che squarcia attese insolute e rivela il volto misericordioso di Dio.
La dimensione profetica della Carità ci invita seriamente a rileggere il significato e lo stile delle opere e delle iniziative promosse dalla Comunità cristiana in tutte le sue espressioni. Le persone, le loro povertà, le nuove periferie esistenziali ci attendono e a volte richiedono il coraggio di lasciare il già fatto e consolidato per inoltrarci in terre nuove. Lasciare non significa abbandonare, ma creare le condizioni perché opere ormai sviluppate, possano camminare con le loro gambe e permettere quindi l’apertura di nuove prospettive di esercizio della Carità. La cura delle cosiddette “opere - segno” va in questa direzione: esse devono rappresentare, per lo stile con cui vengono attuate e per i bisogni a cui corrispondono, una parola che squarcia attese insolute e rivela il volto misericordioso di Dio e la speranza del Vangelo. Quando l’opera non mantiene più questa caratteristica, perché assunta ad un livello sociale più vasto e garantito, è necessario varcare altre soglie, superando la tentazione di una supplenza che a volte diventa alibi a pigrizie sociali e istituzionali che non debbono essere alimentate. Sotto questo profilo dunque la Carità non è alibi, ma sprone alla giustizia sociale e a coloro che sono chiamati a garantirla per tutti.
Attuazioni suggerite
♦ Favorire il lavoro pastorale nella forma degli ambiti sopra indicati e nella prospettiva di processi di trasfigurazione alla luce della Carità evangelica.
♦ Coltivare la serietà impegnativa delle relazioni personali nella comunità, nella società, nei confronti dei più deboli, superando la tentazione di delegare l’impegno di ciascun cristiano all’organizzazione della Carità e di immaginare la Carità come la risposta ad alcuni bisogni concreti, piuttosto che come uno stile di vita che abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza a partire dalla famiglia.
♦ Curare la dimensione educativa della testimonianza della Carità: l’esercizio della Carità nelle sue diverse forme diventi scuola, laboratorio, esperienza che fa maturare nella Carità.
♦ Promuovere in ogni parrocchia la Caritas parrocchiale favorendo la comprensione del proprium di animazione pastorale che essa porta nella vita di ogni comunità. L’animazione caritativa, dentro le comunità e i territori, sia sviluppata attraverso il metodo basato su tre attenzioni tra loro correlate e sinergiche: ascoltare, osservare e discernere. Un ascoltare prolungato, un osservare ampio e un discernere condiviso. Si tratta di uno stile che rende possibile agire pastoralmente, ma anche perseguire un dialogo profondo e proficuo con i vari ambiti della vita ecclesiale, con le associazioni, i movimenti e con il variegato mondo del volontariato organizzato.
♦ Promuovere nel territorio l’animazione attraverso le opere e i servizi della carità a tutto campo. Un’opera di carità parla di Dio, annuncia una speranza e induce a porsi domande. Occorre coltivare al meglio la qualità delle opere: vanno rese “parlanti”, ci si deve preoccupare soprattutto della motivazione interiore che le anima e della qualità della testimonianza che da esse promana. Sono opere che nascono dal Vangelo e dall’Eucaristia. Sono opere di Chiesa, espressione dell’attenzione verso chi più fa fatica. Sono azioni pedagogiche, perché aiutano i più poveri a crescere nella loro dignità, le comunità cristiane a camminare nella sequela di Cristo, la società civile ad assumersi coscientemente i propri obblighi.
♦ Perseguire una prospettiva di lavoro in rete e tutte le collaborazioni possibili, come risposta alla molteplicità delle attese in termini sempre più adeguati e con un ponderato utilizzo di risorse, ma anche come grande occasione di maturazione di una mentalità solidale nelle nostre comunità.
♦ Valorizzare il grande mondo del volontariato in tutte le sue forme, come concreta espressione di solidarietà umana e come ambito di dialogo ispirato alla proposta del messaggio evangelico.
♦ Promuovere la pratica personale e comunitaria delle opere di misericordia corporale e spirituale, da parte di tutte le generazioni che formano la comunità, utilizzando i sussidi diocesani.
♦ Sostenere la conoscenza diffusa e il progressivo apprezzamento del Diaconato permanente, come ministero segnato dal Sacramento dell’Ordine, in cui in modo particolare risplende l’annuncio del Vangelo come principio di ogni gesto di Carità e l’esercizio della Carità come testimonianza decisiva del Vangelo di Gesù.
♦ Incrementare e qualificare con opportune e pertinenti scelte parrocchiali e vicariali il servizio del Sacramento della Penitenza e valorizzarlo in occasioni che manifestino il significato dell’Anno giubilare della Misericordia.
♦ Seguire e elaborare le indicazioni che scaturiranno dal Convegno di Firenze.
Il Segno
Il segno che accompagna questa lettera pastorale è ancora una volta quello della santità. La santità che assume la forma della testimonianza del martirio di sangue così come ci è stato testimoniato da don Sandro Dordi, prete diocesano bergamasco, della Comunità missionaria del Paradiso, fidei donum in Perù, ucciso in quel Paese a causa della sua fede in Cristo e della sua fedeltà al Vangelo, 0 25 agosto 1991. Ora la sua testimonianza viene riconosciuta e proposta a modello dei cristiani, con la sua beatificazione che avverrà in Perù il 5 dicembre prossimo. La vita di don Sandro Dordi è evidentemente ispirata da una fede che è diventata ogni giorno Carità verso il prossimo: una Carità illuminata, generosa e coraggiosa. La sua morte drammatica è diventata una luce di Vangelo per tutti coloro che lo hanno conosciuto, per il nostro presbiterio, per tutti coloro che lo conosceranno, per la moltitudine di missionarie e missionari, preti, consacrati e laici che la nostra Chiesa ha mandato nel mondo. La riconoscenza per il dono della sua testimonianza e della sua beatificazione diventi motivo di preghiera e di rafforzamento del nostro impegno ad essere donne e uomini capaci di Carità.
La parabola
Ho iniziato questa lettera evocando il recente viaggio missionario in Brasile e Bolivia. Concludo raccontandovi un episodio che assurge al valore di parabola e si colloca durante il mio primo viaggio missionario in Africa nel 1983. Insieme ad alcuni amici mi ero perso nella savana ed ero rimasto senza benzina. Mentre il sole tramontava, siamo stati circondati da un nugolo di bambini che ridevano divertiti della nostra impotenza. In questa imbarazzante situazione ad una di noi venne l’idea di distribuire tra loro l’unico pane che ci era rimasto. Mentre veniva distribuito un boccone ciascuno, ho notato un bambino che spezzava con cura il suo e ne metteva in tasca un pezzo. Alla mia domanda sul destino di quel pezzo di pane messo in tasca, la risposta è stata tra quelle che non si dimenticano: “E per mio fratello, a casa”. Il gesto del bambino, dalle evidenti evocazioni eucaristiche, diventi parabola di quella Carità, dai tratti evangelici e profondamente umani, che alimenta il vero senso della fraternità. Affidiamo al Santo Papa Giovanni il cammino di quest’anno pastorale: la sua persona, il suo insegnamento, la sua santità continuino ad ispirare e incoraggiare la fedeltà al Vangelo della Carità.
† Francesco, vescovo
Bergamo, 26 agosto 2015
Sant’Alessandro, Patrono della Città e della Diocesi
Papa Francesco ci ha sorpreso ancora una volta annunciando al mondo e alla Chiesa un Anno giubilare nel segno della Misericordia. Le mani di Dio sono mani di misericordia: la mano del perdono dei peccati e quella delle opere di misericordia. Tutta la vicenda biblica e l’evento culminante della missione di Gesù sono la testimonianza di queste mani misericordiose. Lasciamoci raggiungere ed abbracciare dalle mani di Dio: il Papa si fa interprete dell’attesa, a volte nascosta, ma certamente diffusa e sofferta, di una misericordia più grande del nostro peccato e di un amore capace di nutrire tutta l’esistenza. Desidero raccogliere le indicazioni e le possibilità offerte dalla Diocesi per una celebrazione degna del dono del Giubileo nella luce di questi criteri sintetici: privilegiamo la dimensione parrocchiale, vicariale e diocesana; incrementiamo la possibilità di accedere al Sacramento della Penitenza e rinnoviamo l’invito a chiedere il perdono dei peccati; promuoviamo le opere di misericordia come segno della conversione del cuore. L’indicazione di una chiesa giubilare per ogni Vicariato locale vuol rappresentare l’ampiezza delle possibilità di far esperienza della misericordia di Dio che avvicina ogni persona ed ogni condizione. Il simbolo dell’unica Porta Santa nella Chiesa Cattedrale desidera manifestare l’unità delle nostre comunità, frutto prezioso dell’accoglienza della misericordia di Dio.
La visita vicariale
Dopo la conclusione della visita vicariale dedicata alla dimensione liturgica della vita comunitaria, ho annunciato una nuova visita vicariale dedicata alla dimensione della Carità. Mentre la lettera dal titolo “Donne e Uomini capaci di Eucaristia”, si collocava al termine di quella visita, la lettera attuale si pone all’inizio della prossima e ne diventa una specie di introduzione. La visita vicariale è una preziosa occasione di ascolto di esperienze, riflessioni e prospettive e di dialogo con i presbiteri, i diaconi permanenti, i consacrati e tutti gli animatori ed operatori della pastorale della Carità. Dal desiderio di questo dialogo è scaturita la consapevolezza della necessità che l’incontro stesso si allargasse a tutti gli operatori pastorali che donano il loro tempo, le loro energie, il loro cuore, la loro intelligenza e competenza nei diversi ambiti della vita dell’uomo: la famiglia, le relazioni significative e l’educazione, il lavoro e lo sviluppo della società, la salute e la scuola, il mondo delle fragilità e dei bisogni, la cultura e la comunicazione, la cittadinanza e la politica... Spero che questo incontro, preparato dal lavoro degli ultimi mesi, possa diventare un’occasione preziosa per condividere criteri e orientamenti pastorali, ispirati alle indicazioni sinodali, alla lettura e interpretazione dei dati di ciascun territorio e a questa stessa lettera pastorale.
La visita vicariale è una preziosa occasione di ascolto e di esperienze, riflessioni e prospettive e di dialogo con i presbiteri, i diaconi permanenti, i consacrati e tutti gli animatori ed operatori della pastorale della Chiesa.
L’icona
L’icona scelta per rappresentare il cammino di quest’anno è quella del Buon Samaritano. Vi sarà la possibilità di approfondirla in tanti modi. Tra i molteplici passaggi del racconto di Gesù, vorrei particolarmente sottolineare il sentimento della compassione. E il sentimento che cambia lo sviluppo della narrazione. I diversi protagonisti passano sulla medesima strada e vedono la medesima scena, ma colui che avvia un processo di salvezza è chi si lascia muovere interiormente, visceralmente, dalla compassione. Permettete questa osservazione a margine: oggi si sottolinea spesso come le prese di posizione dell’opinione pubblica siano soprattutto di indole viscerale. Si parla di emotività, di istinti, di impulsività, affermando che massmedia e capipopolo sollecitano volutamente queste reazioni per i propri interessi. Nella parabola ci viene presentata una condizione per certi versi analoga, ma di tenore assolutamente diverso: ci troviamo davanti ad una visceralità che muove a condividere la sofferenza di chi soffre, a ribellarsi alle cause di questa sofferenza adottando scelte che non la moltiplichino e a soccorrere in modo fattivo chi dalla sofferenza è provato. La compassione è la stessa visceralità di Dio nei confronti dell’uomo e della sua radicale condizione di precarietà. La compassione evangelica rappresenta il tratto del coinvolgimento personale nella relazione con l’altro e determina una trasformazione che assume il volto del prossimo. Gesù indica nell’inseparabilità dell’amore di Dio e del prossimo il comandamento più grande. Questo primo insegnamento è decisivo, ma inevitabilmente solleva la domanda: chi è il mio prossimo? L’esito finale della parabola stravolge ogni definizione di prossimo proiettata fuori di noi e indica invece una scelta, una determinazione, uno stile: il prossimo non si sceglie, ma prossimo si diventa. Il comandamento dell’amore prevede che sia io a farmi prossimo ad ogni persona umana, particolarmente a chi è provato nella vita. “Va’, e anche tu fa lo stesso” è l’indicazione fondamentale che Gesù consegna al lettore del Vangelo e al discepolo che crede in Lui. Chi è il cristiano? Si tratta di una domanda dalle molte risposte. Ne evoco una che può suonare come provocazione, ma che in questo contesto mi sembra del tutto pertinente: “Il cristiano è colui che ama”.
La conversione
L’esigenza fondamentale che la Parola e l’esistenza di Gesù sottopongono a coloro che lo seguono è quella della conversione: una trasformazione profonda, frutto della Grazia e della libertà, che descriverei in quattro modi.
Il passaggio dalla durezza alla tenerezza del cuore
Papa Francesco evoca con frequenza la dimensione della tenerezza. Nella testimonianza biblica e nelle parole di Gesù ritroviamo con altrettanta frequenza la denuncia della durezza di cuore. Una durezza che ostacola ogni apertura all’amore di Dio e a quello del prossimo. Non è un passaggio semplice, perché i motivi che alimentano la durezza del cuore continuano a riproporsi e la giustificano con veemenza. La durezza del cuore si nutre delle mie inesorabili ragioni, delle ragioni dogmatiche del sistema economico-finanziario, delle ragioni di una legge evocata e utilizzata in maniera ipocrita, spesso a danno di chi è più debole e più povero. La durezza del cuore diventa il carcere della Parola di Dio e non la buona terra nella quale può fiorire e fruttificare. D’altra parte, la tenerezza non è una specie di ammorbidente che attutisce le inevitabili spigolosità della vicenda umana. Essa consiste essenzialmente nella comprensione di ogni persona nella sua interezza. Il gesto rivelatore della tenerezza di cuore è l’abbraccio che accoglie e raccoglie tutto di una persona. È l’abbraccio di Dio che diventa liberante e risuscita in noi la possibilità di una vita contrassegnata fondamentalmente dall’amore.
Il passaggio dal timore all’amore
Anche questa è una conversione difficile, in un tempo in cui l’esperienza dell’isolamento, dell’abbandono e della solitudine, del sospetto e del pregiudizio, della necessità del successo e dell’esposizione al fallimento, alimentano una paura diffusa. Sembra che timori di ogni genere siano il nostro pane quotidiano: paura di catastrofi, paura di invasioni, paura della crisi, paura del futuro, paura dell’altro, paura di se stessi e di non farcela e alla fine paura di Dio. E strano come in un tempo di evidente indifferenza a Dio, lo si evochi nelle situazioni dolorose come se fosse la causa di tutti i nostri mali, addirittura come se fosse un castigamatti che il più delle volte sbaglia il bersaglio della sua ira ingiustificata. E strano come in società fortemente sviluppate dal punto di vista scientifico e tecnologico la superstizione più infantile trovi ampia accoglienza e considerazione. La rivelazione fondamentale del Vangelo è quella del radicale amore di Dio, donato definitivamente, totalmente e universalmente nella persona di Gesù: è un amore che libera dal potere del timore. Siamo dunque chiamati ad uscire dalla schiavitù della paura e incamminarci sulla strada dell’amore aperta dal Signore Gesù.
La rivelazione fondamentale del vangelo è quella del radicale amore di dio, donato definitivamente, totalmente e universalmente nella persona di Gesù: è un amore che libera dal potere del timore.
Il passaggio dal giudizio alla misericordia
Non si tratta di avvallare alcuna convivenza con il male e il peccato e neppure di rinunciare a quella capacità tutta umana di assumere una posizione limpida davanti al bene e al male; il giudizio è espressione di quella connotazione umana veramente qualificante che prende il nome di coscienza morale. Si tratta piuttosto di uscire da una mentalità giudicante e giudicatrice, sempre pronta a sentenziare ancor prima di capire e soprattutto a individuare colpe e colpevoli, prima che cause e responsabilità. A nessuno piace essere condannato, ma neppure giudicato: non sto parlando della necessità sociale di garantire la giustizia attraverso la funzione giudicante; piuttosto intendo quel sottile o plateale atteggiamento che tende a metter l’altro all’angolo, a farlo sentire in colpa, ad alimentare la sua umiliazione. La misericordia non è un’amnistia generalizzata, tanto meno una giustificazione al relativismo morale; non è l’anestesia della coscienza e della responsabilità. E una disposizione più alta, più comprensiva della grandezza di ogni essere umano e insieme della sua miseria; è una possibilità di riscatto e di risurrezione offerta a ciascuno; è la rivelazione del volto di Dio, come Gesù ci consegna. E quella sapiente pratica, insegnata da Papa Giovanni, capace di distinguere l’errore dall’errante, il peccatore dal peccato, condannando con chiarezza il primo e donando la possibilità di ricominciamento al secondo. Esattamente il contrario di ciò che spesso avviene, per cui si è disposti a tollerare e accettare ogni idea, anche quella più insostenibile, e nello stesso tempo si diventa giudici implacabili nei confronti di coloro che hanno sbagliato.
Il passaggio dalle opere di misericordia ad un cuore misericordioso
Direi che è il passaggio fondamentale. Rappresenta anche il cuore del messaggio e della proposta contenuti in questa lettera. Se è vero che un’opera di misericordia dovrebbe nascere da un cuore misericordioso, altrettanto vero è che il cuore misericordioso non è semplicemente la somma di molte opere di misericordia. Questa riflessione si fa particolarmente seria e impegnativa nella nostra comunità, dove le opere di misericordia si moltiplicano in maniera impressionante in ogni circostanza e nei più diversi ambiti, ma nello stesso tempo si manifestano idee, sentimenti, prese di posizione, giudizi e comportamenti sociali che sono l’esatto contrario di quelle opere. In questo senso ritengo che l’itinerario che stiamo proponendo possa diventare un’occasione propizia perché le opere di misericordia plasmino la nostra mente e il nostro cuore. Se riteniamo che il Vangelo e l’Eucaristia siano capaci di dar forma alle nostre esistenze personali e comunitarie, tanto più coltiviamo la convinzione che l’esercizio della Carità possa diventare una strada su cui avviene la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne.
Se riteniamo che il vangelo e l'eucaristia siano capaci di dar forma alle nostre esistenze personali e comunitarie, tanto più coltiviamo la convinzione che l'esercizio della carità possa diventare una strada su cui avviene la trasformazione del cuore.
La direzione
Questo necessario e fondamentale processo di conversione, mai compiuto definitivamente e che non riguarda soltanto gli operatori della Carità, gli animatori della Caritas o i volontari delle Associazioni, ma l’intera comunità, assume una direzione che vorrei rappresentare con cinque verbi. Sono i verbi adottati per vivere in modo significativo il prossimo Convegno della Chiesa italiana che si terrà a Firenze, dal titolo “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. In questi anni la Chiesa in Italia ha privilegiato l’attenzione agli aspetti educativi della comunità: si tratta ora di dare slancio e concretezza a questo impegno, condividendo una visione dell’uomo, non astratta e calata dall’alto, ma concreta e sperimentata soprattutto nell’incontro con il povero, il quale diventa protagonista di un cambiamento di visione, secondo il messaggio del Vangelo. I verbi adottati dal Convegno e anche da noi, ci aiutano a definire la direzione del nostro cammino per divenire capaci di Carità.
Uscire
Significa superare forme consolidate, strutture consolidate, servizi consolidati. Il verbo, usato frequentemente da Papa Francesco, sollecita la disposizione a proiettarsi e raggiungere le molteplici situazioni che non sono comprese dai confini rassicuranti di istituzioni e proposte tradizionali. Sono le periferie esistenziali della povertà, della sofferenza, dell’esclusione che siamo chiamati a raggiungere in stile missionario ed evangelico. È una disposizione a stare insieme a tutti, insieme a coloro con cui nessuno vuol stare, insieme a chi non crede, per rispondere secondo il Vangelo alle istanze fondamentali dell’umanità. Le frontiere non saranno allora confini da difendere o luoghi avanzati da raggiungere da parte di qualche coraggioso, ma occasioni di incontro e di condivisione. La parrocchia, così rilevante oggi come nel passato, è chiamata a superare ogni tentazione autoreferenziale e le innumerevoli opere della nostra Diocesi sono provocate ad assumere maggiore leggerezza, maggior dinamismo propositivo, maggior elasticità e agilità nel cogliere le profonde attese dei nostri contemporanei, non lasciandosi condizionare in modo eccessivo dalla preoccupazione, per certi versi legittima, dell'autoconservazione. Non possiamo impegnare la maggior parte delle nostre energie a mantenere le opere, lasciando le poche energie che restano a perseguire con vivacità evangelica le finalità per cui esistono: penso alle opere sociali, assistenziali, sanitarie, culturali, educative e scolastiche, familiari, caritative, mediatiche... Le stesse strutture immobiliari di cui disponiamo debbono esser contrassegnate maggiormente da questo stile.
Annunciare
Significa ripensare i nostri linguaggi e le forme con cui comunichiamo il Vangelo. La consapevolezza che il Vangelo si dona e non si impone, che la libertà di ciascuno può disporsi ad accoglierlo o a rifiutarlo, che non si tratta di accomodare il Vangelo per renderlo maggiormente appetibile allo stomaco contemporaneo, che la stessa vicenda di Gesù è contrassegnata dall’incomprensione e dal rifiuto fino alla crocifissione, non alleggerisce per nulla l’impegno a individuare vie per raggiungere il cuore delle persone e le loro condizioni che gridano il bisogno di speranza. Quando parliamo di linguaggi, non intendiamo semplicemente un vocabolario: spesso utilizziamo parole che non vengono assolutamente comprese, adottiamo stili che non sono capiti, ci esprimiamo con un linguaggio per addetti ai lavori. Parlare di linguaggi significa creare possibilità di comunicazione, di intesa, di coinvolgimento che permettano di incontrarsi attorno alla ricchezza dell’umanità, alle sue povertà ed attese, alla ricerca di significati e di Dio stesso. Faccio alcuni esempi. In questi mesi ho evocato più volte l’esperienza che ho condiviso con i giovani nel pellegrinaggio a piedi da Assisi a Roma, culminato con l’indimenticabile incontro con il Papa: mi sono reso conto che “camminare insieme” è un linguaggio che permette di entrare in comunicazione. Ultimamente, nel viaggio missionario in Bolivia, ho avuto modo di apprezzare il linguaggio di immagini, parole, gesti, modi di porsi dei giovani missionari che aprono nuove prospettive all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo. Il modo di essere, di stare, di incontrare e di parlare del Papa, ci dice di un linguaggio che è capace di raggiungere i cuori e anche le intelligenze e i grandi mezzi della comunicazione. Siamo consapevoli che il linguaggio decisivo rimane quello della testimonianza: l’indicazione francescana di annunciare il Vangelo “se necessario anche con le parole”, privilegiando la vita vissuta, trova conferma nelle splendide parole del Beato Paolo VI, quando scrive che il mondo contemporaneo preferisce ascoltare i testimoni più che i maestri e se ascolta i maestri è perché sono testimoni. Il linguaggio del Vangelo assume due connotazioni che il magistero di Papa Francesco ci ricorda in continuazione: sono quelle dell’accoglienza e dell’accompagnamento. La sua lettera Evangelii Gaudium approfondisce le caratteristiche di queste due disposizioni, che non sono facoltative e nemmeno scontate* Si tratta di compiere uno sforzo di approfondimento per comprendere e sperimentare in maniera sempre più evangelica queste due dimensioni. La loro importanza è decisiva per tutti: per i vicini e per i lontani, per i giovani e gli anziani, per i ricchi e per i poveri. Si tratta di una modalità che privilegia l’ascolto, l’incontro, la pazienza, la relazione personale. Infine, non dimentichiamo che la stessa testimonianza della Carità deve lasciar trasparire non solo il nostro cuore, ma il cuore stesso di Dio e diventare rivelazione del suo Volto: non compiamo opere di Carità per conquistarci seguaci, ma compiamo le opere della Carità perché gli uomini “vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio, vostro Padre”.
Abitare
Significa rappresentare la possibilità di diventare una comunità cristiana, in relazione con altre comunità e con il territorio. Si è cittadini del mondo, se si diventa capaci di abitare concretamente la propria città, il proprio paese, il proprio villaggio; si è cristiani dallo sguardo ampio, se i nostri occhi sanno concretamente soffermarsi su coloro che vivono insieme a noi. Diventiamo capaci di Carità nella misura in cui abitiamo concretamente le relazioni che stabiliamo, superando la tentazione di un nomadismo superficiale e irresponsabile. Il pericolo che corrono le grandi organizzazioni della Carità e della Solidarietà umana è quello della lontananza, della freddezza, del mancato coinvolgimento personale. Certamente anche chi studia i grandi e gravi problemi dell’umanità, chi assume responsabilità vaste, chi gestisce grosse organizzazioni, è nella condizione di offrire una testimonianza della Carità nella misura in cui questo impegno venga segnato dallo stile e dai criteri del Vangelo. Lo stesso impegno politico si pone sotto questa luce, divenendo forma concreta e alta della Carità. Il verbo “abitare” evoca la necessità di coltivare l’attenzione e la cura delle situazioni concrete, dei bisogni reali, delle relazioni personali. Il verbo “abitare” indica anche la necessità di promuovere concretamente una diffusa disposizione al servizio per il bene di ciascuno e dell’intera comunità. Perché la comunità cristiana e di tutti gli uomini diventi una casa e non sia semplicemente un albergo, è necessario coltivare una disposizione al servizio che manifesti vicinanza, condivisione e risposta a bisogni reali: un servizio non solo di qualcuno, ma che rappresenti lo stile di un’intera comunità, “una Carità di popolo”. E uno stile che privilegia la sobrietà dei mezzi e la ricchezza delle relazioni, l’attenzione a tutti e la preferenza per i poveri.
Educare
Significa privilegiare il valore dell’esperienza, sia nei suoi aspetti eccezionali che in quelli continuativi e quotidiani, accompagnandola continuamente con la sapiente interpretazione, rielaborazione e assimilazione. La Carità nutrita dall’ascolto della Parola e dal Pane dell’Eucaristia, esige di essere concretamente sperimentata in ogni ambito di vita. E il principio generatore della vita secondo il Vangelo, della sensatezza e bellezza di questa vita. L’esperienza della Carità ha un luogo decisivo nella famiglia, in cui proprio all’interno delle relazioni che vi si stabiliscono si “apprende” e assimila uno stile di amare. Anche la comunità cristiana è luogo decisivo di questa scuola, come pure i molteplici fronti delle attese e dei bisogni della persona umana. D’altra parte non si tratta solo di moltiplicare le esperienze di Carità, ma di far sì che diventino una via per assimilare uno stile, un criterio, il principio vitale dell’amore stesso di Gesù. Educare alla Carità e lasciarci educare dalla Carità è il proposito fondamentale dell’itinerario di quest’anno, come ho già ricordato. In questo senso è necessario promuovere e riconoscere ecclesialmente e socialmente la responsabilità educativa di ogni adulto e la condivisione di valori e di stili ispirati alla Carità evangelica, superando una neutralità indifferente e un pluralismo dispersivo e vuoto.
Trasfigurare
Significa alimentare il rapporto tra fede, Grazia e vita. Sarà proprio questo verbo ad aprire le porte della Carità su ogni dimensione della vita umana. L’opera di trasfigurazione è essenzialmente frutto dello Spirito Santo, che ci raggiunge particolarmente nella Parola di Dio e nei Sacramenti ed è capace di dare forma secondo il Vangelo all’esistenza umana. Si tratta di un’opera che non si compie in modo magico e neppure facile: al dono dello Spirito di Dio è necessario che corrisponda l’adesione libera e convinta della fede dell’uomo e l’attuazione delle sue scelte interiori. Questo dialogo tra la Grazia e la Fede è capace di generare un vita nuova, la cui caratteristica fondamentale è proprio la Carità. Questo processo di trasfigurazione dell’esistenza di ciascuno diventa l’inizio di molti altri processi capaci di trasfigurare i molteplici aspetti della vita di ogni uomo e dell’intera comunità umana, nel segno della Carità.
La trasfigurazione
Ancora una volta desidero sottolineare i due cardini che ispirano tutta questa lettera: promuovere la crescita di una mentalità decisamente connotata dalla Carità; alimentare la consapevolezza che la Carità non è un settore della vita della comunità, ma è l’amore di Dio che pervade ogni dimensione della vita comunitaria e personale. Nella prospettiva del Convegno ecclesiale, tenutosi dieci anni orsono a Verona, desidero raccogliere alcune dimensioni dell’esistenza umana in cinque ambiti, tentando di interpretarli alla luce della trasfigurazione di cui è capace la Carità.
Le relazioni d ’amore
Siamo tutti consapevoli di quanto siano decisive nella vita di ogni persona. Si tratta di relazioni con caratteristiche molto diverse, dalle quali dipende in maniera evidente la felicità dell’esistenza umana. Gran parte di queste relazioni hanno trovato e trovano il loro grembo in quella comunità che abbiamo imparato a chiamare famiglia, il cui nucleo generatore è rappresentato dalla relazione d’amore tra un uomo e una donna, stabilita nel matrimonio. Mi domando: come la Carità è capace di trasfigurare questa relazione, le relazioni familiari e tutte le relazioni che coinvolgono i nostri sentimenti, le nostre passioni, le nostre scelte? Ho l’impressione che in questi decenni, le proposte delle comunità cristiane e dei loro pastori non siano riuscite a toccare e trasformare il cuore di coloro che vivono questi legami: è come se parlassimo una lingua sconosciuta e non riuscissimo a stabilire un dialogo interessante e utile con donne e uomini, giovani e vecchi, attorno a queste esperienze. Queste proposte mi sembrano contrassegnate da una tensione: da una parte la rappresentazione di modelli ideali che spesso non riescono ad incarnarsi nelle condizioni di vita del mondo contemporaneo; dall’altra parte, una grande difficoltà a proporre cammini percorribili e convincenti, scivolando spesso in proposte moraleggianti o del tutto generiche, che vengono avvertite come insignificanti da parte di molti. Le forme della Carità vissute in queste relazioni sono ricche e luminose, ma spesso sembrano evocare un contesto che non esiste più e che neppure va mitizzato. Parole come pazienza e sopportazione, rispetto ed aiuto, silenzio ed umiltà, fino alle più alte come perdono, dedizione, sacrificio, indicano caratteristiche sacrosante dell’amore, ma non sono state arricchite in maniera significativa dalle parole della libertà e della responsabilità, della consapevolezza e della dignità, della creatività e della gioia, della corporeità e della sessualità, della fragilità e della comprensione, della lucidità e del lavoro su di sé, della bellezza e della tenerezza, del piacere e dei sentimenti. Alcuni potrebbero dire che da anni queste dimensioni sono proposte ed entrate nella visione cristiana delle relazioni affettive, ma bisogna riconoscere che la gran parte, anche dei battezzati, non se ne è accorta. La trasfigurazione del mondo delle relazioni affettive e familiari alla luce della Carità, passa da un ascolto molto più convinto e praticato delle istanze di cui sono portatrici persone e famiglie, si sviluppa attraverso proposte di rielaborazione alla luce di competenze relazionali accurate e della freschezza del messaggio evangelico. Ritengo che l’impegno più urgente e decisivo sia quello di individuare persone che abbiamo le caratteristiche per entrare in dialogo costruttivo ed efficace con coloro che avvicinano la comunità cristiana: dai fidanzati e conviventi orientati al matrimonio, ai genitori che richiedono i sacramenti dell’Iniziazione cristiana per i loro figli, alle coppie che la comunità incontra in particolari passaggi della loro esistenza. Non penso che un servizio di questo genere possa realizzarsi in ogni parrocchia: mi sembra si debba privilegiare la possibilità di esperienze significative, condivise da più parrocchie, dai loro presbiteri, dai consigli pastorali e dagli operatori di pastorale familiare. Una seconda indicazione è rappresentata dalla necessità di declinare insieme le attenzioni pastorali al mondo giovanile con quelle destinate alla famiglia e alle relazioni affettive. Di fatto si è proceduto per linee parallele, con sconfinamenti che non hanno valorizzato le competenze e le sensibilità presenti nei due ambiti pastorali, con un impoverimento di possibilità che la sinergia di questi approcci, unitamente a quello di natura vocazionale, può certamente favorire. Non sono poche le iniziative qualificate in questo senso: penso al Gruppo Samuele e al recente Gruppo Emmaus, ma è necessario che le ricadute dal punto di vista del metodo e dell’esito di queste proposte diventino più evidenti e più diffuse. La trasfigurazione che la Carità realizza nell’ambito delle relazioni affettive investe anche gli aspetti problematici e i passaggi critici che attraversano: anche in questo ambito mi sembra che scontiamo un ritardo non indifferente, riducendo l’ampiezza e la profondità delle dimensioni esistenziali di queste situazioni a questioni circoscritte, anche se di grande rilevanza, come l’ammissione ai Sacramenti di persone che vivono in condizioni non coerenti con l’insegnamento della Chiesa. In verità nella nostra Diocesi è nata e cresciuta l’esperienza de “La Casa”, proprio con l’intenzione di accogliere e accompagnare in maniera ampia e significativa coloro che vivono queste situazioni e si è andata creando una rete di Consultori di ispirazione cristiana, che offrono un servizio competente in situazioni critiche: ritengo che le ricadute pastorali di queste iniziative debbono essere considerate in modo più consapevole e accurato da parte di tutte le comunità parrocchiali e dei loro pastori. Sarà importante accompagnare con la preghiera e interpretare nella fede il prossimo Sinodo sulla Famiglia, non come una “partita” tra conservatori e progressisti, scadendo in logiche da tifoseria, ma come un’opportunità di tutto rilievo per rielaborare alla luce della Carità e della Misericordia il nostro modo di concepire e proporre l’insieme delle dimensioni relazionali ed affettive della persona umana. Indubbiamente la capacità comunicativa e la profonda umanità evangelica di Papa Francesco ci stanno aiutando in questa riproposizione del messaggio cristiano sulla famiglia e le relazioni affettive: le sue catechesi del mercoledì, dedicate a questi temi, possono rappresentare un aiuto concreto alla riflessione comunitaria e alle diverse proposte in questo ambito. La trasfigurazione di queste relazioni alla luce della Carità investe anche la dimensione pubblica delle relazioni d’amore a cominciare da quelle familiari. L’affermazione di logiche fortemente segnate dall’individualismo esasperato è andata di pari passo con la progressiva privatizzazione delle relazioni familiari, favorendone una fragilità e precarietà spesso del tutto ingiustificata. Non si tratta di imporre modelli cattolici ad una società evidentemente plurale, ma non desistiamo dal proporre, interloquire e dialogare con tutti, attorno a valori ed orientamenti che possono essere riconosciuti decisivi e fecondi oltre le appartenenze di natura religiosa e culturale, superando pregiudizi e incomprensioni che sono espressione di rigidi schemi di natura ideologica. Senza sperimentare, ringraziando il cielo e gli uomini, i devastanti scandali nazionali di alcuni soggetti cooperativistici, dobbiamo però riconoscere che la cultura della cooperazione ha lasciato troppo il passo all’organizzazione fine a se stessa e all’utilizzo di questi soggetti solo per ragioni strumentali. Le osservazioni che ho elencato non vogliono rappresentare un giudizio sull’impegno ideale, faticoso e competente di moltissimi soggetti lavorativi, ma evidenziare l’esigenza di un rilancio della cultura del lavoro: da sempre il lavoro genera cultura, particolarmente nel nostro territorio. La capacità trasfigurante della Carità raggiunge il mondo del lavoro, dei lavoratori e degli imprenditori, promuovendo una qualificazione e una produttività capaci di alimentare speranze inclusive, condivise, significative per le nuove generazioni; capaci anche di non rassegnarsi alla necessità di creare gli “scarti umani”, determinata dalle algide geometrie di organizzazione del lavoro. Ritengo veramente esaltante dal punto di vista umano e spirituale, valorizzare concretamente tutti i tentativi di creare percorsi di lavoro in cui le sinergie, le economie gestionali, le progettualità condivise, la promozione dei soggetti umani, gli strumenti di ricerca, rappresentino possibilità che aprono al futuro. Mi sembra necessario che l’ispirazione evangelica, alimentata dal principio della Carità, possa illuminare e innervare forme nuove di responsabilità e condivisione nel mondo del lavoro. Desidero che le attuali esperienze in cui la comunità cristiana è impegnata, non solo in forme di assistenza nei confronti di chi vive la precarietà o l’esclusione dal mondo del lavoro, ma di sostegno e promozione di nuove strade di solidarietà lavorativa, siano conosciute e sostenute sia a livello diocesano, come nelle realtà territoriali in cui si organizza la nostra Diocesi. L’intelligenza della Carità, insieme all’esigenza della giustizia sociale, rappresentano un autentico valore aggiunto nel rilancio del lavoro e dell’occupazione in forme autenticamente umane. Non è separato da questo discorso quello che porta la sigla della “festa”. La Carità è l’anima della festa secondo il Vangelo, perché promuove la celebrazione della festa nei suoi aspetti più intensamente umani. Penso alla gratuità, alla scioltezza delle relazioni, alla soddisfazione per risultati conseguiti insieme, alla gioia di traguardi familiari, a momenti in cui la comunità si riconosce. La Carità contribuisce alla trasfigurazione della festa sempre più esposta a tentazioni di efficienza organizzativa, di produttività economica, di esercizi di potere da parte di un gruppo piuttosto che di un altro, di rassegnato e qualche volta compulsivo consumismo. Qualche riflessione sulla festa nell’ambito della comunità cristiana l’ho condivisa nell’ultima Lettera pastorale. In questo momento vorrei sottolineare l’importanza della festa, riprendendo le parole di Papa Francesco: “Dunque la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca evasione, no la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben fatto; festeggiamo un lavoro. ... Anche nell’ambiente di lavoro, a volte - senza venire meno ai doveri! -noi sappiamo «infiltrare» qualche sprazzo di festa: un compleanno, un matrimonio, una nuova nascita, come anche un congedo o un nuovo arrivo..., è importante. E importante fare festa. Sono momenti di familiarità nell’ingranaggio della macchina produttiva: ci fa bene! Ma il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale ed è sacro, perché ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere schiavi del lavoro, ma «signori»” (Udienza del 12 agosto 2015).
Le fragilità
Amplissimo è l’ambito delle fragilità, in cui la forza trasfigurante della Carità riesce a compiere autentici miracoli e a rinnovare quella speranza che è il frutto dell’amore. Si tratta di fragilità materiali, psicologiche e spirituali: personali, familiari e sociali. Sono fragilità che toccano la salute del corpo, la serenità personale, l’ampio e diversificato mondo delle relazioni, le progettualità e infine tutte le condizioni che determinano esiti segnati dalla solitudine, dall’abbandono, dalla discriminazione e addirittura dal disprezzo. Sono anche tutte le situazioni di precarietà sociale che riescono ad incidere profondamente nell’animo e nelle speranze di chi le deve subire. La prima risposta è quella preventiva: creare, cioè, le condizioni diffuse perché le situazioni di fragilità non si verifichino e se questo avviene non diventino troppo gravi. Tutto ciò che appartiene al mondo dell’equità e della giustizia sociale è caro al cristiano, è espressione concreta di Carità, è necessità morale a cui non può sottrarsi. Egoismi di parte non sono mai giustificati dalla fede e dalla testimonianza di un Vangelo che si rivolge a tutti, senza discriminazioni. L’impegno per la giustizia si accompagna alla coltivazione convinta di relazioni significative a livello familiare, comunitario, sociale e lavorativo, che rappresentano il tessuto organico in cui si sviluppa la vita di ciascuno. La solitudine radicale è veramente l’esito perverso di un individualismo al quale ci siamo concessi e ci stiamo concedendo con un’incoscienza presuntuosa e divisiva le cui conseguenze sono veramente distruttive. La cultura della solidarietà sembra essere relegata ai margini della costruzione della società e affidata al volontariato e alla Chiesa, come se rappresentassero una specie di riserva sociale per attenuare i risultati di una cultura di tutt’altro segno. Anche le forze sociali e politiche che hanno storicamente rappresentato questo valore, si sono sempre più appiattite e a volte identificate con le espressioni più radicali dell’individualismo contemporaneo. Sempre più fatichiamo a trovare luoghi in cui condividere l’impegno per l’edificazione comunitaria e responsabile della società: privilegiamo invece le logiche competitive e meritocratiche a spese non solo dei più deboli, ma dell’edificazione di una società che non sia dominata dai criteri esclusivi dell’efficienza e del successo. In questi anni, pur nella necessaria purificazione da ogni pesantezza di natura statalista, stiamo orientandoci ad una forma di Stato che, utilizzando in modo deformato il principio di sussidiarietà, tende ad abbandonare le fragilità al “buon cuore” di cittadini volonterosi e della Chiesa, accusata poi di arricchirsi sulle spalle dei contribuenti. Siamo ancora lontani da una seria e politicamente impegnata definizione di condizioni legislative e politiche per un welfare di comunità, che non sia soltanto una bella espressione o, peggio ancora, un alibi al venir meno di responsabilità sociali ineludibili. La trasfigurazione operata da una Carità pervasiva, alimenta nella coscienza del cristiano il senso della responsabilità in ordine alla costruzione di una società giusta, soprattutto con i più deboli e in ordine alla tessitura di relazioni impegnative che garantiscano dal basso una coesione sociale capace di farsi carico delle condizioni di fragilità umana alle quali tutti siamo esposti. Insieme alle riflessioni relative al momento preventivo, vogliamo soffermarci sulla vastità e la ricchezza delle risposte alle situazioni di fragilità. E impressionante la quantità delle opere che rispondono a questa esigenza e l’impegno delle nostre comunità cristiane e delle associazioni e fondazioni di ispirazione cristiana, senza dimenticare le altre, in questa direzione. Sono state censite in Diocesi di Bergamo 363 opere e servizi, di cui 3 nell’area sanitaria, 84 in quella sociosanitaria e 276 in quella socio-assistenziale. Le aree anziani e minori sono quelle dove si orientano maggiormente le attenzioni, le opere e i servizi. In questi ultimi anni, sono aumentate anche quelle destinate agli adulti e alle famiglie. Desidero farmi interprete di un corale sentimento di profonda gratitudine per coloro che si prodigano, a volte con generosità eroica, negli incalcolabili campi della risposta alle fragilità. Si tratta di risposte a volte molto semplici, altre volte molto complesse, che scaturiscono non solo nell’orizzonte dei diritti e dei doveri della persona e della società, ma nell’ambito dell’amore e della solidarietà umana. Vi sono opere, che nella fantasia della Carità e nella competenza intelligente che l’accompagna, rispondono a fragilità dimenticate e poco sostenute dall’organizzazione dello Stato. Vi sono anche stili di vita che un’infinità di persone adottano quotidianamente nell’ambito del loro lavoro e che trasformano i loro compiti e le loro mansioni in autentiche testimonianze d’amore. Queste opere, soprattutto quando realizzate nell’ambito della comunità cristiana, devono corrispondere ad alcuni criteri che indico in maniera essenziale. Il criterio della promozione della persona. Se non possiamo sottrarci in nome della Carità a dare una risposta immediata ai tanti bisogni e alle tante emergenze personali e sociali che si manifestano, non possiamo rinunciare a sostenere soprattutto i processi di liberazione, di riscatto e di promozione della persona, che corrispondono alla sua intima dignità e la introducono nella possibilità di esercitarla. Il criterio dell’intelligenza della Carità. Si tratta di superare la tentazione elitaria della Carità intelligente, che è sempre discriminante, per abbracciare il criterio dell’intelligenza della Carità. Questa è la comprensione e il giudizio sulle cose, sui meccanismi sociali, sulle situazioni personali che si alimenta ai contenuti e alla caratteristiche della Carità evangelica. Sotto questo profilo, l’intelligenza della Carità diventa capace di alimentare il coraggio della profezia: denuncia critica delle contraddizioni della società e delle sue ipocrisie, ingiustizie e violenze e insieme apertura di strade e possibilità liberanti, su territori e confini abbandonati dai più. Il criterio del “segno”. Le nostre opere devono rappresentare un segno più che una soluzione definitiva: esse precedono, sono ispirate alla gratuità, coltivano il desiderio di un’esemplarità sociale. Non devono consolidarsi troppo, ma fermentare la crescita di tutta la società nelle direzioni che hanno individuato e rappresentato. Poi bisogna trovare il coraggio per andare altrove e raggiungere altre fragilità, altre periferie esistenziali. Un quarto criterio consiste nel lavoro condiviso, nel lavoro in rete, in collaborazioni sempre più efficaci. Esiste nella comunità cristiana, in nome di una concretezza generosa e responsabile, la tentazione di lavorare da soli, di guardare da lontano esperienze simili, di privilegiare le differenze più che le somiglianze. Oggi la risposta alla fragilità diffusa ci richiede forme di collaborazione che non si risolvano nella moltiplicazione di riunioni, ma piuttosto nell’attivazione di processi competenti che alimentino risposte efficaci e sinergiche. Un quinto criterio si ispira alle provocazioni di Papa Francesco: si tratta di una visione diversa del povero e della persona nella sua fragilità. Il Papa continuamente e con forza ci chiede di passare da una visione del povero e del fragile come destinatario della nostra opera, ad una considerazione di costoro come protagonisti non solo del loro riscatto, ma della promozione di una civiltà più umana: vedere il mondo con gli occhi dei poveri, cambiare il mondo a partire dal protagonismo dei poveri, fare della liberazione del povero la misura della nostra crescita umana. Si tratta di un cambiamento radicale, ma profondamente cristiano: nel cuore della fede del cristiano ci sta il Crocifisso, il debole, il fragile, l’impotente, il fallito, il piagato. Lui è il Risorto, il principio della Risurrezione e della vita nuova. Si tratta dunque non solo di riconoscere il Crocifisso nei crocifissi della vita e di avvicinarsi a loro con amore, ma di riconoscere in loro l’insegnamento e la potenza che scaturiscono dal Crocifìsso, una potenza che cambia la storia. Un ulteriore criterio va ricordato: la Carità interpella personalmente ciascuno, non può essere delegata, non può essere a tempo, non può manifestarsi solo in un particolare spazio. Non possiamo fare a pezzi il cuore. Non c’è persona, per quanto povera, debole, fragile che non possa esercitare la Carità: sotto questo profilo la grande pagina del giudizio universale che l’evangelista Matteo ci consegna, la descrizione delle opere di misericordia corporali e spirituali e il comandamento dell’amore del prossimo, rappresentano riferimenti che interpellano ogni cristiano. Questa lunga riflessione sulla trasfigurazione delle fragilità da parte della Carità, vuole descrivere una realtà meravigliosa e nutrire la consapevolezza che le opere della Carità sono necessarie, ma ancor più necessario è un cuore che ama secondo il Vangelo. Le mani della Carità rivelino e alimentino un cuore di Carità.
La tradizione
Sembra che nell’Occidente contemporaneo, la cultura e l’arte, la scienza e la tecnica, si sviluppino a prescindere dalla fede e anche dalla Carità. La constatazione è provocante, se pensiamo che gran parte del patrimonio artistico e culturale dello stesso Occidente è ispirata proprio da queste sorgenti. Per altro, è da un verso divertente e dall’altro triste e qualche volta indisponente, constatare come gran parte di questo patrimonio venga presentato ai nostri contemporanei come del tutto avulso dall’humus culturale e religioso che lo ha prodotto. Ritengo che esista una Carità culturale che non consiste solo nell’amore per la verità, ma nell’amore per ogni persona umana espresso nel riconoscimento e nella comunicazione della verità, della bellezza, della bontà, della giustizia e della santità attraverso i canali della cultura e dell’arte, della scienza e della tecnica. Per favorire questi processi è necessario il coraggio dell’apertura e della coltivazione di un dialogo “interessante” con la cultura e l’arte contemporanea, con i diversi settori della scienza, della ricerca e della tecnica e con tutti coloro che vi lavorano. E un impegno molto difficile, a fronte di un’indifferenza che sembra indisposta a corrispondere a questo dialogo; nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa possibilità esiste e non sono poche le persone che in diversi modi vi si dispongono. Per quanto riguarda la comunità cristiana, la trasfigurazione della Carità nell’ambito della cultura esige di percorrere con determinazione ed entusiasmo spirituale queste vie: la via dei linguaggi, la via della comunicazione mediatica, la via dell’educazione. Queste vie non condurranno da nessuna parte, se non saranno tracciate dalla riflessione teologica in tutti i suoi aspetti: sotto questo profilo, il contributo che in modo del tutto significativo viene offerto nella nostra Diocesi dalla Scuola di Teologia del Seminario diocesano si rivela quanto mai necessario. Incoraggio tutti coloro che vi lavorano non solo a continuare questo prezioso servizio, ma a mantenerlo sempre qualificato e capace di illuminare la vita, le scelte e la pastorale della nostra Diocesi. I processi di trasmissione della fede e di elaborazione di una cultura fermentata evangelicamente non possono più essere scontati. Alcuni ritengono che prospettive di indole culturale siano appannaggio degli addetti ai lavori e che l’impegno pastorale disponga già di tutti gli strumenti necessari ai propri compiti. In questo modo esprimono comunque una visione culturale della vita della Chiesa e della sua missione, ma chiudono gli occhi davanti alle evidenti trasformazioni di mentalità e vi si avvicinano in maniera del tutto approssimativa, in nome della pratica, del buon cuore e della fede. Ritengo che la Carità e, in questo caso, proprio la Carità pastorale, debba ispirare un’ampia ricerca nel campo del linguaggio, che non consiste semplicemente in una sostituzione di parole: si tratta di comunicare in maniera significativa l’Evangelo e il suo appello alla fede nel contesto della cultura del mondo contemporaneo. La via della comunicazione mediatica non può essere considerata ancora come una forma di “amplificazione” o comunque di moltiplicazione quantitativa del messaggio evangelico. Si tratta non solo di utilizzare i media e le loro potenzialità, ma di abitare nel mondo della comunicazione sempre più pervasivo, dove le forme di connessione assumono caratteristiche che sfuggono all’attenzione e al modo di concepire la trasmissione della fede da parte di molti di noi. E necessario dunque promuovere la formazione di persone che sappiano muoversi in questo mondo e aiutino l’intera comunità ad abitarlo. Questo discorso assume un particolare rilievo nella nostra Diocesi, che raccoglie una tradizione ecclesiale e professionale in questo ambito, quasi unica nella Chiesa. Il fatto di aver ereditato questa enorme possibilità, non può alimentare una specie di pigro orgoglio o al contrario una critica inconcludente: si tratta invece di rinnovare la coscienza di ciò che rappresenta questo patrimonio e di raccoglierne le potenzialità formative in maniera molto più responsabile. Nell’ambito della Carità della cultura si colloca l’enorme impegno educativo della comunità cristiana, cominciando da quello ancora determinante delle famiglie cristiane. Quanto oggi la comunità cristiana aiuta le famiglie in quest’opera? Con quali mezzi? Con quale consapevolezza che non sia solo recriminazione nei confronti dei doveri della famiglia che riteniamo disattesi? Alle famiglie si unisce il mondo della scuola pubblica, nelle sue componenti statali e cattoliche, soprattutto nella persona degli insegnanti e di coloro che ne hanno la responsabilità gestionale. Desidero incoraggiare tutti coloro che lavorano in questo ambito a ricercare forme di sinergia educativa attorno a valori effettivamente condivisi e praticati e alla passione per le nuove generazioni, perché diventino esperienza concreta nell’ambito delle dinamiche scolastiche. Nell’ambito educativo, un’altra realtà di tutto rilievo e del tutto caratteristica della nostra Diocesi è rappresentata dagli Oratori. A volte avverto giudizi rassegnati su questa proposta, dettati dal presunto venir meno della loro capacità educativa, sostituita da proposte aggregative giudicate contraddittorie con i valori che ispirano l’Oratorio stesso; è una rassegnazione alimentata anche dalla diminuzione di preti giovani che si giochino con convinzione in questo ambito. La ragione più immediata e convincente per rinnovare lo slancio e per ringraziare tutti coloro che lo sostengono, è la constatazione molto pratica ed evidente che dove non esistono gli Oratori, le possibilità formative della comunità cristiana nei confronti delle giovani generazioni sono fortemente limitate. In questo momento, in molte regioni d’Italia e del mondo, si guarda a questo modello educativo con una grande e fiduciosa attenzione. Ricerchiamo forme nuove non solo di proposta, ma anche di gestione delle responsabilità, privilegiando quelle di indole comunitaria, espressione di una connotazione dei nostri Oratori, sentiti da sempre come espressione della comunità intera. Proprio riflettendo sugli Oratori emerge una istanza relativamente nuova che l’Oratorio da solo non può corrispondere: si tratta della proposta del Vangelo e della fede ai giovani dai vent’anni in poi. Il loro impegno nel lavoro o a livello universitario, la forte e ampia mobilità, rendono meno efficace la proposta oratoriana, se non per coloro che vi si impegnano direttamente. Ho chiesto a coloro che curano questo ambito uno sforzo particolare, non finalizzato solo a qualche evento pur bello e coinvolgente, ma alla possibilità diffusa di una proposta significativa della fede e di sperimentarne il valore nella vita di persone giovani. Tra queste proposte brillano quelle missionarie e caritative, in cui si manifestano le caratteristiche proprie di un cuore e di una mente giovane e si possono sperimentare in modo intenso le istanze fondamentali del Vangelo. Nell’ambito della Carità trasfigurante il mondo della “tradizione” vorrei collocare la considerazione dell’importanza pastorale delle nostre tradizioni e della loro forza formativa. La riscoperta della religiosità popolare e le considerazioni ricorrenti di Papa Francesco ci impegnano ad una seria considerazione di queste espressioni della fede, che si rivelano capaci di parlare ancora a molti e di generazioni diverse. La forza delle tradizioni diffuse si manifesta nella nostra Diocesi non solo per l’abbondanza in termini quantitativi, ma per il rapporto ancora consistente ed evidente con le dimensioni profonde della fede. Ho più volte ricordato non solo la meraviglia davanti a questa realtà, ma la consapevolezza che le tradizioni non sono scatole rimaste vuote, ma piuttosto scrigni capaci di custodire la fede. Ho detto altrettanto spesso che però il tesoro della fede è vivo: lo scrigno lo custodisce, ma rischia anche di soffocarlo. E necessario quindi alimentare il rapporto tra tradizioni, crescita nella fede e vita cristiana nel mondo contemporaneo, superando forme di nostalgia o di affermazione del passato, che qualche volta possono assumere caratteristiche di chiusura non solo alle novità, ma alle istanze che la proposta evangelica e la coscienza cristiana debbono raccogliere dal mondo contemporaneo. Dentro questo quadro che vede protagonista la Carità dell’intelligenza, è un’utopia o una pericolosa ambizione immaginare di disegnare le linee di una proposta formativa che abbracci tutta la vita e la missione della nostra Chiesa?
La cittadinanza
La fede in Gesù Cristo e l’adesione al suo Vangelo impegna il cristiano ad una convinta appartenenza e ad una costruttiva partecipazione alla città di tutti. L’idea di cittadinanza indica un’identità ed un’appartenenza, l’esercizio equilibrato di diritti e di doveri, la consapevolezza di una responsabilità partecipativa, una prospettiva contrassegnata dal valore del bene comune, la condivisione di quelle forme che garantiscono la pluralità reale e 1 esercizio di una sostanziale democrazia, il superamento di ogni visione che riconduca l’esperienza umana alla sfera degli interessi privati, lasciando alla responsabilità pubblica il compito di regolarli. Dobbiamo riconoscere che la coscienza della cittadinanza da parte di tutti, anche dei cristiani, in questo momento è molto confusa. Portiamo il retaggio di visioni superate come quella comunista e quella capitalista; abbiamo smarrito il forte dinamismo rappresentato dal movimento cattolico nelle sue diverse declinazioni; abbiamo aperto gli orizzonti di cittadinanza all’Europa, ma li vediamo oscurati dalla perdita dei valori ideali che l’hanno costituita nei suoi inizi; siamo coinvolti in una globalizzazione che ci trasforma in cittadini del mondo, ma soltanto dal punto di vista economico, dominato da logiche che sfuggono ad ogni controllo democratico; viviamo un rapporto con l’ambiente che rischia di diventare sempre più problematico. Anche nelle dimensioni più contenute, rappresentate dalle nostre comunità locali, viviamo situazioni frammentate, difficoltà di condivisione, conflittualità sbracate, forme di esclusione alimentate dalla paura, dal risentimento e dall’egoismo. Stentiamo a sentirci rappresentati in maniera adeguata a livello politico e sociale, siamo tentati da scorciatoie di indole populista che da sempre si rivelano un inganno di quello stesso popolo a cui si appellano e nello stesso tempo ci ritiriamo sempre più in forme di difesa dei confini del nostro privato o alimentiamo un volontariato che sembra incapace di nutrire una cultura delle responsabilità sociali e politiche. In questo quadro, forse eccessivamente oscuro, avvertiamo la presenza dinamica di soggetti nuovi di partecipazione, una pervicace determinazione da parte di cattolici e di comunità cristiane a non sottrarsi a questo impegno e ad alimentarlo in termini formativi più
di tanti altri, il faticoso tentativo di rinnovamento di rappresentanze di ordine politico, sociale ed economico, una seria considerazione dei problemi ambientali e la promozione di un’ecologia integrale, la presenza diffusa di amministrazioni locali caratterizzate da onestà, vicinanza alla comunità e ai suoi problemi e da visioni che superano la gestione ordinaria e aprono nuove prospettive. Desidero riaffermare la necessità di un risveglio della coscienza cristiana in questa direzione. Una coscienza che non faccia della fede una bandiera da sventolare, ma piuttosto il lievito che fermenta l’insieme della vita sociale. Una coscienza chiara nei propri convincimenti, alimentati dalla conoscenza dei fondamenti dell’insegnamento sociale che scaturisce dal Vangelo, che permetta di sviluppare un dialogo sempre più necessario in una società plurale o di affrontare i prevedibili conflitti, che sono connaturati alla dimensione politica della vita, con lo stile proprio di coloro che si ispirano al Vangelo. Sempre più si creano spazi per l’affermazione dei diritti civili, che afferiscono a dimensioni delicate della vita umana come la famiglia, l’educazione, la sessualità, il rispetto della vita stessa, la cura e la salute. Il positivo riconoscimento di questi diritti è deformato da un greve individualismo di cui rischiamo di morire, da uno stravolgimento di indole ideologica di valori umani fino ad oggi condivisi e spesso affermati dalle più solenni codificazioni internazionali: non possiamo sottovalutare questa situazione, non per difesa di interessi di parte, ma per una passione nei confronti dell’umanità e della integrale dignità di ogni persona, che deve contraddistinguere la coscienza e l’azione del cristiano. Il domino globale dell’economia e della finanza, della comunicazione mediatica, della scienza e della tecnica, ci interpellano duramente circa le capacità delle attuali forme democratiche di non essere scavalcate in modo brutale da parte di questi poteri e di non essere condizionate totalmente da essi. Il rischio è che la democrazia, nelle sue istituzioni e nelle sue procedure, si riveli incapace di rappresentare adeguatamente le istanze di cui è portatrice, con il rischio di scivolare in una pura rappresentazione formale. Le stesse istanze di indole pragmatica, che sembrano corrispondere alle esigenze di soluzioni concrete, efficaci e veloci, non possono rappresentare una soluzione adeguata ad una visione integrale dell’uomo e della società, proprio perché prive di questa visione. Anzi, il rischio di questa impostazione è grave perché apre le porte ai poteri più forti, ad una diminuzione della solidarietà sociale, all’accettazione rassegnata del prezzo di “scarti umani” ritenuti inevitabili, da affidare al “buon cuore” della gente e della Chiesa. Il solidarismo di ispirazione cristiana, spesso irriso ed emarginato, rimane un contributo di umanizzazione della società che riteniamo abbia un significato sempre più grande. Ritengo che una strada praticabile, impegnativa e prospettica, quasi un laboratorio per imprese più grandi, sia rappresentata dalla realtà locale in cui la plausibilità dei valori evangelici si misura con la concretezza dei bisogni reali e con la possibilità di corrispondervi. La trasfigurazione che la Carità è capace di operare nell’ambito delle responsabilità di ciascun cristiano in campo sociale e politico, per una cittadinanza solidale e fraterna è tutt’altro che un buon sentimento, ma un’autentica possibilità di rigenerazione di questa dimensione della vita umana.
Desidero riaffermare la necessità di un risveglio della coscienza cristiana in questa direzione. una coscienza che non faccia della fede una bandiera da sventolare, ma piuttosto il lievito che fermenta l’insieme della vita sociale.
I criteri
Nelle riflessioni che ho condiviso, sono già indicati i criteri a cui si ispira la capacità di essere donne e uomini che credono, accolgono e testimoniano la Carità. Li riprendo in forma del tutto schematica, così che possano diventare strumento di interpretazione del nostro attuale impegno nella Carità e orientamenti per continuare il cammino
♦ Il criterio che ispira tutta la lettera e che più volte ho ricordato è rappresentato dalla necessità di maturare una mentalità, un’intelligenza delle cose, una cultura, contrassegnate dalla Carità, dal comandamento dell’amore. Le opere di misericordia, le opere di Carità, l’impegno solidale nelle sue diverse manifestazioni, devono diventare un’autentica scuola alla quale apprendere e assimilare la lezione della Carità evangelica perché dia forma a tutta la vita di un cristiano.
♦ La Carità del cristiano non è selettiva e discriminante: non sceglie il proprio prossimo, ma trasforma colui che crede nel Vangelo e nella Carità di Dio, in prossimo per ogni persona umana nel suo bisogno.
♦ Il povero e ogni persona nel suo limite, nella sua precarietà, nel suo bisogno non è solo un oggetto del nostro aiuto, ma è un attore del cambiamento della società alla luce di relazioni segnate dai principi della giustizia e della Carità. Se forme di assistenza urgente ed essenziali, rimarranno sempre necessarie, altrettanto necessario è il cammino intrapreso di riscatto e di promozione di ogni persona umana, a partire dalle concrete condizioni in cui vive e alle concrete possibilità di cui dispone.
♦ L’organizzazione, a volte molto complessa, della Carità a livello comunitario e sociale, non sortirà grandi cambiamenti se non è sostenuta dall’impegno che coinvolge ogni persona, ogni cristiano. La relazione personale, il “guardare negli occhi il povero”, lo stile di vita e di rapporto con gli altri, non sono sostituibili neanche dalle forme più organizzate della Carità o dai servizi sociali più efficienti. Da questo punto di vista non esiste persona che non possa esercitare la Carità e la solidarietà, qualsiasi sia la sua condizione. Non c’è povero, malato, bisognoso che non sia capace di un gesto d’amore. La promozione di relazioni personali, significative, di aiuto semplice e cordiale tra le persone che vivono in una comunità e verso le persone più bisognose è un percorso coerente con le considerazioni che abbiamo sviluppato.
♦ Vi è una dimensione profetica della Carità che merita di essere adottata come criterio delle opere della Carità, soprattutto le più complesse, e come giudizio sul loro stile e la loro necessità. In altre parole: molte delle grandi iniziative che segnano il progredire della nostra civiltà, sono espressione della Carità cristiana esercitata nella vita concreta delle singole persone e delle comunità nel loro complesso. In questo Anno della vita consacrata, desidero ricordare le grandi figure di Sante e di Santi bergamaschi che con sacrifici immensi hanno dato vita ad opere di Carità realmente profetiche: c’è una certa facilità a dimenticarli e a considerare con sufficienza coloro che ancora oggi ne incarnano la Missione, a cui desidero manifestare tutta la consapevole e affettuosa riconoscenza della Comunità diocesana. Spesso questa testimonianza anticipatrice della Chiesa, ha aperto la strada ad assunzioni di responsabilità sempre più ampie da parte della società e dello Stato. Quello che apparteneva al campo di Carità è entrato nel campo della giustizia e dei fondamentali diritti di ogni persona umana.
Le opere segno per lo stile con cui vengono attuate e per i bisogni a cui corrispondono rappresentano una parola che squarcia attese insolute e rivela il volto misericordioso di Dio.
La dimensione profetica della Carità ci invita seriamente a rileggere il significato e lo stile delle opere e delle iniziative promosse dalla Comunità cristiana in tutte le sue espressioni. Le persone, le loro povertà, le nuove periferie esistenziali ci attendono e a volte richiedono il coraggio di lasciare il già fatto e consolidato per inoltrarci in terre nuove. Lasciare non significa abbandonare, ma creare le condizioni perché opere ormai sviluppate, possano camminare con le loro gambe e permettere quindi l’apertura di nuove prospettive di esercizio della Carità. La cura delle cosiddette “opere - segno” va in questa direzione: esse devono rappresentare, per lo stile con cui vengono attuate e per i bisogni a cui corrispondono, una parola che squarcia attese insolute e rivela il volto misericordioso di Dio e la speranza del Vangelo. Quando l’opera non mantiene più questa caratteristica, perché assunta ad un livello sociale più vasto e garantito, è necessario varcare altre soglie, superando la tentazione di una supplenza che a volte diventa alibi a pigrizie sociali e istituzionali che non debbono essere alimentate. Sotto questo profilo dunque la Carità non è alibi, ma sprone alla giustizia sociale e a coloro che sono chiamati a garantirla per tutti.
Attuazioni suggerite
♦ Favorire il lavoro pastorale nella forma degli ambiti sopra indicati e nella prospettiva di processi di trasfigurazione alla luce della Carità evangelica.
♦ Coltivare la serietà impegnativa delle relazioni personali nella comunità, nella società, nei confronti dei più deboli, superando la tentazione di delegare l’impegno di ciascun cristiano all’organizzazione della Carità e di immaginare la Carità come la risposta ad alcuni bisogni concreti, piuttosto che come uno stile di vita che abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza a partire dalla famiglia.
♦ Curare la dimensione educativa della testimonianza della Carità: l’esercizio della Carità nelle sue diverse forme diventi scuola, laboratorio, esperienza che fa maturare nella Carità.
♦ Promuovere in ogni parrocchia la Caritas parrocchiale favorendo la comprensione del proprium di animazione pastorale che essa porta nella vita di ogni comunità. L’animazione caritativa, dentro le comunità e i territori, sia sviluppata attraverso il metodo basato su tre attenzioni tra loro correlate e sinergiche: ascoltare, osservare e discernere. Un ascoltare prolungato, un osservare ampio e un discernere condiviso. Si tratta di uno stile che rende possibile agire pastoralmente, ma anche perseguire un dialogo profondo e proficuo con i vari ambiti della vita ecclesiale, con le associazioni, i movimenti e con il variegato mondo del volontariato organizzato.
♦ Promuovere nel territorio l’animazione attraverso le opere e i servizi della carità a tutto campo. Un’opera di carità parla di Dio, annuncia una speranza e induce a porsi domande. Occorre coltivare al meglio la qualità delle opere: vanno rese “parlanti”, ci si deve preoccupare soprattutto della motivazione interiore che le anima e della qualità della testimonianza che da esse promana. Sono opere che nascono dal Vangelo e dall’Eucaristia. Sono opere di Chiesa, espressione dell’attenzione verso chi più fa fatica. Sono azioni pedagogiche, perché aiutano i più poveri a crescere nella loro dignità, le comunità cristiane a camminare nella sequela di Cristo, la società civile ad assumersi coscientemente i propri obblighi.
♦ Perseguire una prospettiva di lavoro in rete e tutte le collaborazioni possibili, come risposta alla molteplicità delle attese in termini sempre più adeguati e con un ponderato utilizzo di risorse, ma anche come grande occasione di maturazione di una mentalità solidale nelle nostre comunità.
♦ Valorizzare il grande mondo del volontariato in tutte le sue forme, come concreta espressione di solidarietà umana e come ambito di dialogo ispirato alla proposta del messaggio evangelico.
♦ Promuovere la pratica personale e comunitaria delle opere di misericordia corporale e spirituale, da parte di tutte le generazioni che formano la comunità, utilizzando i sussidi diocesani.
♦ Sostenere la conoscenza diffusa e il progressivo apprezzamento del Diaconato permanente, come ministero segnato dal Sacramento dell’Ordine, in cui in modo particolare risplende l’annuncio del Vangelo come principio di ogni gesto di Carità e l’esercizio della Carità come testimonianza decisiva del Vangelo di Gesù.
♦ Incrementare e qualificare con opportune e pertinenti scelte parrocchiali e vicariali il servizio del Sacramento della Penitenza e valorizzarlo in occasioni che manifestino il significato dell’Anno giubilare della Misericordia.
♦ Seguire e elaborare le indicazioni che scaturiranno dal Convegno di Firenze.
Il Segno
Il segno che accompagna questa lettera pastorale è ancora una volta quello della santità. La santità che assume la forma della testimonianza del martirio di sangue così come ci è stato testimoniato da don Sandro Dordi, prete diocesano bergamasco, della Comunità missionaria del Paradiso, fidei donum in Perù, ucciso in quel Paese a causa della sua fede in Cristo e della sua fedeltà al Vangelo, 0 25 agosto 1991. Ora la sua testimonianza viene riconosciuta e proposta a modello dei cristiani, con la sua beatificazione che avverrà in Perù il 5 dicembre prossimo. La vita di don Sandro Dordi è evidentemente ispirata da una fede che è diventata ogni giorno Carità verso il prossimo: una Carità illuminata, generosa e coraggiosa. La sua morte drammatica è diventata una luce di Vangelo per tutti coloro che lo hanno conosciuto, per il nostro presbiterio, per tutti coloro che lo conosceranno, per la moltitudine di missionarie e missionari, preti, consacrati e laici che la nostra Chiesa ha mandato nel mondo. La riconoscenza per il dono della sua testimonianza e della sua beatificazione diventi motivo di preghiera e di rafforzamento del nostro impegno ad essere donne e uomini capaci di Carità.
La parabola
Ho iniziato questa lettera evocando il recente viaggio missionario in Brasile e Bolivia. Concludo raccontandovi un episodio che assurge al valore di parabola e si colloca durante il mio primo viaggio missionario in Africa nel 1983. Insieme ad alcuni amici mi ero perso nella savana ed ero rimasto senza benzina. Mentre il sole tramontava, siamo stati circondati da un nugolo di bambini che ridevano divertiti della nostra impotenza. In questa imbarazzante situazione ad una di noi venne l’idea di distribuire tra loro l’unico pane che ci era rimasto. Mentre veniva distribuito un boccone ciascuno, ho notato un bambino che spezzava con cura il suo e ne metteva in tasca un pezzo. Alla mia domanda sul destino di quel pezzo di pane messo in tasca, la risposta è stata tra quelle che non si dimenticano: “E per mio fratello, a casa”. Il gesto del bambino, dalle evidenti evocazioni eucaristiche, diventi parabola di quella Carità, dai tratti evangelici e profondamente umani, che alimenta il vero senso della fraternità. Affidiamo al Santo Papa Giovanni il cammino di quest’anno pastorale: la sua persona, il suo insegnamento, la sua santità continuino ad ispirare e incoraggiare la fedeltà al Vangelo della Carità.
† Francesco, vescovo
Bergamo, 26 agosto 2015
Sant’Alessandro, Patrono della Città e della Diocesi
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”. |