1994
CELEBRIAMO LA QUARESIMA
Celebriamo la Quaresima all’insegna del nostro battesimo e della sofferenza, tema del piano pastorale dell’anno in corso, 1994, in prosecuzione del precedente piano pastorale “nascere e morire oggi” che ha coinvolto tutte le Chiese della Lombardia nel 1993. La Quaresima inizia col rito dell’imposizione delle sacre ceneri per ricordare all’uomo la sua caducità: “ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai”. È un forte richiamo alla nostra esistenza effimera che si inserisce tuttavia nella luce del progetto di Dio sull’uomo. Eravamo polvere e torneremo in polvere, ma la nostra non è polvere anonima, affidata al vento, per il fatto che è stata rimpastata dalle mani del Creatore a sua immagine e somiglianza e vi ha insuflato il suo spirito divino per cui è diventata polvere divina che nessuno potrà mai disperdere. Noi siamo figli suoi e i nostri nomi sono scritti in cielo nel libro della vita. Col peccato purtroppo abbiamo deturpato l’immagine in noi del Creatore e ci siamo incamminati sulla via della perdizione perchè senza Dio non c’è che la morte. È stata la sventura dei nostri progenitori ed è la nostra sventura ogni volta che col peccato rinneghiamo il nostro Dio. Ma sempre per divina misericordia, col battesimo siamo generati da morte a vita come figli di Dio, riscattati dal sangue di Cristo, e veniamo nuovamente contrassegnati col sigillo dell’immortalità. Per ciò che dipende da noi siamo polvere, ma per ciò che dipende da Dio siamo sue creature dal momento che si è compiaciuto di umanizzarsi nella nostra polvere per divinizzarci. “A tutti quelli che credono nel suo nome ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,13). Non è esatto quindi affermare che si viene dal nulla per tornare nel nulla, polvere da polvere, mentre veniamo da Dio per tornare a Dio, sia pure costretti a passare dalle forche caudine della morte fisica per conseguire la salvezza. La Quaresima ci rimette su questa strada che Cristo ha percorso per noi e prima di noi con la sua passione e morte di croce, di cui egli stesso afferma che è una strada stretta, irta e tortuosa, ma è l’unica che porta alla salvezza. Il Calvario è il punto d’incontro tra la morte e la vita, tra il cielo e la terra, tra la mortalità e l’immortalità, tra l’uomo che toma polvere nella polvere e Dio che rianima questa nostra polvere. E’ là dove l’uomo chiude gli occhi alla luce terrena per poterli aprire subito allo splendore della luce eterna; è là dove il Padre celeste, come il padre del figliol prodigo, ci attende per l’abbraccio paterno e per intrattenerci alla grande festa del paradiso celeste. In Quaresima tornano di attualità i novissimi: morte, giudizio, inferno o paradiso. Il cristiano è invitato a meditarli: “medita i tuoi nuovissimi e non peccherai in eterno”, afferma la sacra scrittura. Ma i nuovissimi vanno meditati serenamente senza patemi d’animo e senza paura. La paura è entrata nel mondo con la notte, quale conseguenza del peccato, perchè l’uomo si è dichiarato nemico di Dio, mentre Dio è sempre stato amico dell’uomo prima e dopo il peccato. La sacra scrittura afferma infatti che Dio è ricco di misericordia al punto che essa sorpassa infinitamente la gravità di ogni colpa. Dobbiamo pertanto affidare tutte le nostre colpe che detestiamo umilmente alla divina misericordia. Questo è il grande messaggio della Quaresima che giunge a noi attraverso l’ascolto della parola del Signore: “Fate misericordia se volete conseguire misericordia; la stessa misura che voi adotterete per i vostri fratelli, io l’adotterò per voi” (Mt 5,43 e 6,5). Dio infatti per i peccatori vuole misericordia e non sacrificio (Mt 9,9 e 12, Is). Il battesimo di acqua che abbiamo ricevuto è da vivere nelle nostre fatiche e sofferenze quotidiane in comunione con le sofferenze dei nostri fratelli. È il seme della nostra vita che va affidato al solco di Cristo affinchè possa esplodere a nuova vita in Lui, nostra Pasqua di morte e di risurrezione. L’apostolo Paolo esclama: “Desidero esplodere per essere con Cristo, poiché il morire per me è un guadagno” (Fl 1,21-23). Così pure S. Agostino; “È inquieto il mio cuore, o Signore, finché non riposi in te” (Confessioni). Per ben vivere bisogna imparare a ben morire, accettando quotidianamente, ancora come afferma anche l’apostolo Paolo, di morire a se stessi, al proprio egoismo, al proprio orgoglio, alla propria autosufficienza se vogliamo sentirci in comunione con Dio e coi fratelli. L’elemosina, come afferma la sacra scrittura, ma non quella mortificante che adottiamo per tener fuori dei piedi i bisognosi, cancella la moltitudine dei nostri peccati. Così si afferma della preghiera, ma non quella fatta di chiacchiere, sebbene quella che ci permette di dialogare con Lui, il Dio della nostra vita che è presente in noi. Se il battesimo di acqua è la nostra rinascita alla vita divina, la morte del cristiano è la nostra rinascita alla vita eterna. Ma nulla si improvvisa di fronte alla vita eterna: com’è la nostra vita, così è la nostra morte. La Quaresima ci aiuti a metterci al passo con Dio.
con affetto: don Giulio
con affetto: don Giulio
PER UNA BUONA PASQUA
Pasqua è il ritorno alla vita: la natura nel suo risveglio primaverile, per quanti hanno sofferto i disagi della stagione invernale che tornano a recuperare un po’ di sollievo per la salute, per gli operai che si affaticano nei campi e nelle fabbriche per crescere i propri figli, per chi s’innamora e pensa di farsi una propria famiglia. Pasqua soprattutto è il ritorno di Cristo risorto che rende attuale la redenzione a tutti quelli che credono in Lui operando in loro la conversione. Con la Pasqua si celebra la vita all’insegna della parabola evangelica del seme che viene affidato al solco della terra perchè possa riprodursi nell’albero nuovo che ha già potenzialmente in se stesso. Già il succedersi delle stagioni ci insegna che la natura cammina sul binario “morte-vita”. Così pure è per l’uomo che non può sottrarsi a questa legge. La vita esige che si passi per il labirinto della morte per riaffermarsi. Cristo medesimo ha accettato la vita umana da rendere, e l’ha resa con la morte di croce, per poterla riprendere poi gloriosamente nella risurrezione. Passando nel labirinto della morte l’ha potuta affrontare come in un mirabile duello, afferma la liturgia del venerdì santo, e l’ha assorbita amaramente distruggendola per sè e per noi. S. Paolo infatti afferma che Lui è la primizia dei risorti perchè dopo di Lui tutti noi, che siamo in Cristo, siamo in cammino verso la risurrezione. Sembra che sia la morte quasi a partorire la vita, per cui deve esistere una certa dipendenza dell’una dall’altra come il guscio che racchiude il seme. Giustamente si afferma che anche la morte appartiene alla vita come due aspetti dell’unica realtà ma con la prospettiva che la vita alla fine avrà il pieno sopravvento sulla morte stessa. “L’ultimo nemico da vincere - afferma ancora S. Paolo - sarà la morte” oltre il tempo. Intanto morte e vita viaggiano parallelamente come le ruote del medesimo carro. Rimane comunque un grande enigma per noi, questo problema, perchè umanamente non siamo in grado di risolverlo senza far ricorso alla Pasqua di Cristo. Costituisce comunque un fatto di fede, da credere. Cristo si è lasciato coinvolgere nel nostro destino di morte. Lui - l’autore della vita - ma per ricuperarci da questo abisso di perdizione: Se credo a Cristo, che è il Signore, credo alla vita: “Chi vive e crede in me, non vedrà mai la morte” dichiara Gesù (Gv 3,16). “Il Signore fa cadere su di Lui l’iniquità di tutti noi” (Is 53,4-6). La Pasqua torna pertanto a interpellare la nostra fede in Gesù Cristo morto e risorto. Fare Pasqua significa morire in Cristo al peccato per risorgere con Lui a vita nuova. Col sacramento della penitenza infatti il cristiano toma a rivestirsi dell’innocenza battesimale e a ricuperare, se pentito, i meriti delle buone opere compiute perduti col peccato grave. Il sacramento ci offre il segno della presenza di Cristo, come la fonte ci offre il luogo della scaturigine dell’acqua perchè possiamo attingerla. Pasqua è Cristo, la parola di Dio che si è umanizzata per divinizzarci. Cristo risorto, oltre che nella sua parola è nei sacramenti, vuole che l’abbiamo a riconoscere nei fratelli soprattutto più piccoli e bisognosi.
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Non sarà mai Pasqua per chi chiude il proprio cuore alle necessità altrui e impedisce a Cristo di risorgere nelle persone che soffrono dilaniate dal disamore. L’augurio pasquale, che presento a tutta la popolazione di gran cuore, è fondato su queste premesse affinchè non si esaurisca nelle belle affermazioni di convenienza ma si realizzi in pieno nel cambiamento della nostra vita.
con tanto affetto don Giulio |
ANNO INTERNAZIONALE DELLA FAMIGLIA
Giovanni Paolo II° ha inaugurato l’anno 1994 proclamato dall’ONU “Anno Intemazionale della Famiglia” dedicando ai rapporti tra famiglia e pace il suo XVI° messaggio per il primo gennaio 1994, giornata mondiale della pace, col tema “Dalla Famiglia nasce la pace della Famiglia umana”. Ripercorriamo i punti più salienti del documento pontificio per dedicare una breve riflessione al problema stesso della famiglia in quest’anno 1994. La pace, afferma il pontefice, sembra davvero una meta irraggiungibile in questo nostro clima avvelenato dall’odio. Non dobbiamo tuttavia rassegnarci perchè sappiamo che la pace, indispensabile per il bene di tutta l’umanità, è inscritta nel progetto originario divino che riguarda l’uomo e tutta la società umana. L’uomo infatti è stato fatto a immagine di Dio Creatore con un progetto che non si realizza soltanto nell’individuo, ma nella comunione di persone che è a base della famiglia, comunità domestica, e della famiglia più grande che coinvolge tutta l’umanità. La famiglia infatti è comunità di vita e di amore, è quindi il veicolo privilegiato per la trasmissione di tutti i valori religiosi e culturali che aiutano la persona ad acquistare la propria identità. La famiglia pertanto porta in sè il futuro stesso della società umana all’insegna di un avvenire di pace. Non esiste quindi un’altra strada da perseguire per ottenere la pace che ha il suo fondamento nell’amore domestico e nella giustizia sociale. Tutti questi valori, insiste il sommo pontefice, più che essere insegnati, devono essere testimoniati nell’ambito familiare che li vive al suo interno quali virtù domestiche basate sul rispetto profondo della vita e della dignità di ogni singola persona. Al di fuori di questo contesto familiare e di questi valori, l’essere umano rimane per se stesso un essere incomprensibile. La sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore e se non lo fa proprio. L’amore vero poi si accompagna sempre alla giustizia, indispensabile per la pace. Una civiltà di pace è impossibile quando manca l’amore. La famiglia poi, osserva il papa, è la prima vittima della mancanza di pace. La vocazione di pace che, come s’è detto, è all’origine della famiglia viene tradita in una società che non la cerchi, o, peggio ancora, che la rinneghi. Si creano tensioni pericolose all’interno della famiglia stessa quando ad esempio i coniugi sono costretti a starsene lontani l’uno dall’altro per troppo tempo e così pure quando il loro comportamento non si ispira ai valori fondamentali dell’amore e della vita, abbandonandosi magari all’edonismo e al consumismo. In tal caso i genitori non possono più essere punto di riferimento valido per i figli. Le frequenti liti fra i genitori, il rifiuto della parola, il maltrattamento dei minori sono le gravi cause del disamore che sfasciano le famiglie. I ripieghi del divorzio e della separazione, provocano sempre conseguenze irreparabili a danno della famiglia e della comunità. Ricuperare la famiglia, significa risanare la società. Nazioni intere sono coinvolte nella spirale d’incessanti conflitti in cui le prime vittime sono le famiglie, disgregate, sradicate dal proprio ambiente, costrette a evadere verso l’ignoto. Si moltiplicano così innumerevoli casi di abbandono dei figli, degli anziani, degli infermi, delle persone più deboli e più povere senza contare i disastri fisici e morali disseminati a ogni livello di una comunità. Il mondo sembra assistere impassibile di fronte a tutte queste tragedie. Ciò costituisce un vero scandalo e la vergogna di questi nostri tempi. La famiglia è chiamata a essere protagonista attiva della pace e in questa sua missione deve essere sostenuta con tutti i mezzi possibili proprio perchè costituisce il nucleo originario della società, tenuto conto che se si promuove la famiglia si promuove tutta la società. Il pontefice rivendica ai genitori il diritto fondamentale di poter decidere liberamente e responsabilmente, in base alle loro convinzioni morali e religiose e alla loro coscienza debitamente formata, quando dare vita a un figlio per poi educarlo conformemente a tali valori. Per difficoltà di mezzi, non considerati dalia società, le giovani coppie sono costrette a ritardare o a rinunciare alla costituzione della propria famiglia. L’indigenza vieta poi alle famiglie la possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale e si rischia di costringerle a una totale emarginazione. A queste condizioni la famiglia non è più in grado di essere al servizio della pace secondo la sua originaria vocazione di donare amore e di trasmettere vita. Dal documento del santo padre scaturiscono questi e tanti altri insegnamenti che ci aiutano ad ai tare il tema della famiglia efficacemente e in sintonia anche col piano pastorale diocesano per l’anno corrente che verte sui temi: il battesimo dei bambini e problema della sofferenza.
don Giulio
don Giulio
PROPOSTA "CARITAS"
Non si pensi subito a una nuova istituzione quando si parla di Caritas, che giustamente il nostro Vescovo di Bergamo vuole presente in ogni parrocchia della diocesi. Si tratta precisamente della testimonianza cristiana che deve costituire la caratteristica fondamentale del nostro rapporto coi fratelli soprattutto poveri. È praticamente lo stile cristiano di testimoniare la propria fede nel Cristo che riconosciamo fratello nei fratelli. Questo rapporto coi fratelli viene codificato da Cristo nella legge dell'amore con cui saremo tutti giudicati alla fine dei tempi: "Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, pellegrino, malato, carcerato, perseguitato, disperato... e voi mi avete soccorso - dirà a quelli alla sua destra il Giudice divino, pertanto: venite benedetti a possedere il premio che vi è stato preparato... "Mentre dirà a quelli alla sua sinistra: "Voi non mi avete soccorso... pertanto, andate maledetti al fuoco eterno preparato per voi e per il diavolo... "(Mt 25,31). Anche chi non crede alla vita eterna dovrà pure comparire al tribunale di Dio e l'unica sua salvezza dipenderà dal fatto di avere creduto a Cristo nei fratelli sul piano pratico della fratellanza e dell'amore. L'eresia dei nostri tempi si può affermare duplicemente sia per chi cerca l'uomo per sfruttarlo "homo hominis lupus" e sia per chi cerca Dio per evitare l'uomo; Dio, sì; ma l'uomo, no! La parabola del buon Samaritano ci insegna che il vero tempio di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza, in cui il sacerdote, il levita e tutti noi siamo chiamati a celebrare l'amore non è a Gerusalemme, ma nell'uomo incappato nei ladroni e vittima della violenza e dell'emarginazione (Lc 10,30 e ss.). I veri poveri, secondo Cristo, dovrebbero essere i cristiani. Cristo infatti nella beatitudine "Beati i poveri in spirito perchè di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3 e Lc 6,20) si riferisce ai suoi discepoli che per seguirlo hanno lasciato tutto. "Se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto ciò che hai, dallo ai poveri, e poi vieni e seguimi" (Mc 10,17), dice Gesù al giovane che gli chiedeva cosa dovesse fare per avere la vita eterna. Pertanto i primi a dare l'esempio di povertà dobbiamo essere noi cristiani. Giuda si era preoccupato dei poveri come pretesto perchè era ladro e non ha saputo riconoscere in Cristo il vero povero che è sempre con noi nei fratelli bisognosi (Gv 12,4...). Non dimentichiamo la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,20). È povero chi non diventa schiavo delle ricchezze terrene. Zaccheo, ladro, si converte a Cristo restituendo il maltolto e offrendo le sue ricchezze ai poveri (Lc 19,8). Divenendo solidale coi poveri, Zaccheo, diventa anche discepolo di Cristo, che si è fatto povero per arricchire tutti con la sua povertà (2Cor 8,9). La Caritas percorre una duplice via: quella che porta Cristo a noi se ci facciamo poveri per il regno dei cieli (Mt 5,3) e quella che porta noi a Cristo che vuole essere amato e soccorso come fratello nei fratelli poveri. La vera povertà quindi è la nostra vocazione cristiana che ci invita a essere poveri per essere capaci di possedere Cristo e di soccorrere Cristo nei fratelli bisognosi.
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Sul piano pratico, la proposta "Caritas" ci coinvolge personalmente, comunitariamente e radicalmente nei problemi dell'uomo: assistenza, ricupero, lavoro, libertà, giustizia sociale, scuola, famiglia, catechesi e via dicendo. Dobbiamo organizzarci personalmente e comunitariamente per onorare la povertà di Cristo in noi e nei fratelli perchè soltanto così, Cristo, può farsi tutto a tutti (2Cor 8,9). L'invito è rivolto a tutte le persone di buona volontà, sia per i sondaggi, sia per le proposte e sia per gli interventi richiesti affinchè i nostri discorsi possano tradursi nella pratica.
con affetto, don Giulio |
10 AGOSTO:
FESTA PATRONALE DI S. LORENZO M.
Torna puntuale la festa di S. Lorenzo M., Patrono della nostra Comunità Zognese, per raccoglierci tutti, vicini e lontani, nella tradizionale celebrazione che reca con sè tanti teneri ricordi del passato e tanti affetti del presente da vivere insieme. Il fatto stesso d'incontrarci con le persone care e amiche e con tutta la folla zognese che dilaga per le vie del centro in questi giorni di festa, costituisce un grande avvenimento che si ripete nella storia del nostro paese e che ci permette di guardarci negli occhi per esprimerci reciprocamente la simpatia e la gioia incontenibile di volerci bene. Si sprigiona così lo slancio della tenerezza che da buoni valligiani teniamo solitamente rinchiusa nel nostro comportamento, apparendo ritrosi o indifferenti, mentre avvertiamo interiormente una grande voglia di condividere la gioia che comporta la vita stessa quando ci si apre all'affetto delle persone capaci di condividere con noi i grandi valori della famiglia e della comunità civile e religiosa. In S. Lorenzo, giovane esplosivo di umanità e di fede, ritroviamo il nostro inesauribile riferimento di fede e di amore che affonda le sue radici nella santità e nell'esempio eroico di così grande patrono. La povertà del nostro tempo affligge maggiormente i giovani e i più giovani, facile bersaglio dello sfruttamento e vittime delle imprese della criminalità organizzata divenuta una grande potenza imperante. S. Lorenzo ci insegna che nessuno, soprattutto oggi, può eclissarsi da una situazione così dilagante di miseria morale di cui non si può trovare rimedio se non nel cambiamento radicale di tutta la società chiamata al ricupero dei grandi valori umani e cristiani rinnegati purtroppo col nostro comportamento edonistico e consumistico frutto di egoismo e di un radicato individualismo. Dobbiamo deciderci a scendere in piazza, non per delle manifestazioni contradittorie o per delle pagliacciate, ma sull'esempio di S. Lorenzo, decisi a testimoniare la carità di Cristo sprezzando il pericolo di qualsiasi compromesso, anche perchè nessuno più, oggi, può sentirsi al sicuro arroccato nel proprio isolazionismo. Ci conceda S. Lorenzo, che invochiamo di cuore, la forza d'innamorarci come lui di Dio e dei fratelli, soprattutto se poveri, sofferenti, o emarginati dalla nostra comunità, ricordando che tutte le persone che noi non amiamo, Dio le ama e attende in esse di essere amato per costruire insieme la salvezza. Chi riscopre, come Lorenzo, il proprio tesoro nei fratelli bisognosi, riscopre Cristo, l'unico tesoro valido per l'acquisto del regno dei cieli.
Con tanto affetto.
Don Giulio
Con tanto affetto.
Don Giulio
CON NOVEMBRE TORNA IL RICORDO
DEI NOSTRI MORTI
I vivi e i morti parlano la stessa lingua quando pregano. Ma mentre i vivi frequentemente tacciono, analfabeti, perchè non pregano, i morti continuano a parlare la lingua dell'eternità perchè pregano sempre. Riempiono con la preghiera il tempo della loro attesa di poter conseguire pienamente la visione beatificata di Dio da cui si sentono irresistibilmente attratti. Essi pregano per noi, ma non possono pregare per sè, mentre noi possiamo pregare per loro perchè possano accelerare il conseguimento pieno della gloria celeste. La loro preghiera è indirizzata a Dio come lode e come supplica affinchè si realizzi il suo regno in cielo e in terra a cui noi pure siamo chiamati a far parte. Essi vivono comunque nella certezza di conseguire il regno, mentre noi viviamo soltanto nella speranza di poterlo conseguire, speranza suffragata anche dalle loro preghiere. Sappiamo dalla fede che i nostri morti dormono il sonno della pace. Fisicamente il loro corpo riposa nei sepolcri, ma il loro spirito gode di piena libertà, quindi non dorme. Lo negheremmo se affermassimo il contrario. L'anima dell'uomo non muore infatti, ma vive immortale, sia pure in attesa di potersi ricongiungere col proprio corpo nella risurrezione finale. I nostri morti continuano pertanto a vivere con noi col loro spirito. Il nostro Dio, non è il Dio dei morti ma dei vivi, come afferma la sacra scrittura. La morte, anzi, non ha più nessun potere sui nostri morti, mentre esercita ancora tutto il suo dominio su di noi, poveri mortali. Essi non temono più la morte perché l'hanno vinta in Cristo e come Cristo in croce morendo. Dobbiamo imparare da S. Francesco a condividere fraternamente la vita con sorella morte. Per il cristiano la morte ha due facce, una nell'ombra rivolta alla terra e l'altra nella luce rivolta al cielo poiché, essendo interposta fra il tempo e l'eternità, proietta su di noi l'ombra dello splendore della luce eterna di Dio che contempla. Noi dobbiamo attraversare quest'ombra come una nube opaca che si frappone tra noi e la vita beata. I nostri cari sono già passati dalle tenebre di questa valle di lacrime alla luce eterna del cielo. La vita infatti cambia ma non ci viene tolta: ("Vita mutatur, non tollitur!" canta la liturgia funebre). I nostri defunti, deposta la veste logora della mortalità, si sono rivestiti d'immortalità. Di fronte a questa visione di fede, non sono escluse comunque le lacrime, sono anzi sacrosante. Gesù medesimo ha pianto, umanamente, sulla morte di Lazzaro mentre, divinamente, l'ha risuscitato da morte a vita dopo di avere invocato l'intervento del Padre perchè tutti credessero in Lui. Uniamoci a Cristo con le lacrime e le preghiere per i nostri cari defunti sia per accelerare loro la beatitudine e sia per ottenere a noi la grazia di poterci ricongiungere con loro nella vita eterna.
Don Giulio G.
Don Giulio G.
CURIOSITÀ CHE RIGUARDA IL CULTO DEI MORTI
Al nostro Museo di S. Lorenzo sono esposti alcuni vassoi, detti elemosinieri perchè servivano a raccogliere le elemosine in suffragio dei fedeli defunti durante le celebrazioni liturgiche, sbalzati in ottone, a volte argentato, con delle immagini del Vecchio o del Nuovo Testamento, o anche con semplici decorazioni, comunque sempre con una scritta circolare all'interno in caratteri arcaici germanici (nebilunghi, tiporune)? La scritta, tradotta da appositi studiosi, suona così: "Io rimango qui in attesa e sto in pace". È il morto stesso che parla ai propri cari affermando che rimane in pace in attesa della risurrezione che non si stanca mai di attendere. Questi elemosinieri vennero fabbricati dal 1500 al 1550 (a Norimberga) e non oltre perchè vennero sostituiti dai piatti di peltro, molto più economici e di facile lavorazione. Questi elemosinieri si diffusero in tutte le nostre chiese su scala europea. Gli antiquari ne hanno fatto incetta, spogliando le chiese, mentre nelle loro botteghe oggi sono posti in vendita a fior di milioni. Altri vassoi, simili ai nostri elemosinieri, ma di uso profano, non hanno le caratteristiche descritte sopra che ne documentano l'uso.
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PROPOSTA DI PIANO PASTORALE PER IL 1994/1995
Penso valga la pena di ricuperare il tema "Evangelizzazione e Testimonianza della Carità", orientamenti pastorali per gli anni '90 della CEI. Del gennaio 1992, che sono passati inosservati.
I° Evangelizzazione privilegiata nella celebrazione liturgica.
Bisogna tornare sull'idea di Dio per correggere le deformazioni della religiosità contemporanea, per conoscere il pensiero della gente che si è fatta di Dio e, con la gente, del prete che finisce per predicare un Dio che non ha nulla o ben poco di cristiano, o un Dio troppo duro, il "deus olimpicus" pronto a scagliare fulmini contro chi sbaglia, un Dio che ti sorprende sempre nei tuoi sbagli per nulla remissivo; ovvero un Dio pappamolla che non vale niente, che tollera tutto di buon grado come un nonno rincitrullito, ma che non cambia nulla della nostra vita perchè ci permette di vivere come se non esistesse; oppure un Dio tappabuchi impegnato soltanto a rimediare ai nostri misfatti. Magari si predica Dio sul piano dogmatico da una parte, ma lo si rifiuta poi sul piano pratico delle scelte dall'altra. Non c'è coerenza tra il dire e il fare. A volte si considera Dio come l'unica testa sbagliata da convertire, perchè sbaglia tutto e se arriva, è troppo tardi: (dov'era Dio quando mio figlio si è schiantato con la sua vettura? Era al suo posto)! Lo si invoca come un castigamatti, ma per le mattate degli altri e non certo per le nostre. Poi si rifiuta sdegnosamente la sua interferenza nei fatti nostri che vogliamo decidere per conto nostro: (vedi il libero amore, il divorzio, l'aborto, lo sfruttamento dei poveri...). Il Dio che predichiamo noi comunque non fa più presa sulla gente che si sente annoiata o indifferente; sembra non appartenga affatto alla nostra storia. Da qui una seria verifica dell'idea che abbiamo di Dio. Bisogna tornare al Dio della parola e della testimonianza, al Dio della Scrittura che non è ne un boia nè uno sdolcinato, ma è il Dio dell'amore che si dona totalmente in Cristo per coinvolgerci tutti nel suo amore per i fratelli. L'amore è esigente, non ci permette di dormire sugli allori o di consumare i suoi doni nel disamore. L'amore esige infatti di possedere la persona che ama e per cui si dona. Il Dio che teniamo fuori di casa, non è il Dio che ci salva, non è il Dio che ha fatto irruzione nella nostra vita per decidere con le sue scelte il nostro comportamento. Il Dio del credo: lo voglio in cielo e in terra; che voglio perchè mi vuole; lo voglio anche se dovessi morire perchè in Lui rivivrò. Il Dio del Credo: è "totaliter alter": la trascendenza di Dio sorpassa infinitamente ogni creatura e noi siamo incapaci di comprenderlo; è anche "totaliter aequalis" perchè mi ha fatto a sua immagine e somiglianza per cui io sono in Lui e Lui è in me. L'idea che abbiamo di Dio si riflette sull'idea che abbiamo anche dell'uomo.
II° - Testimonianza della carità
Abbiamo problemi scottanti di rapporto tra di noi. Il famigerato "camminare insieme" non si realizza a volte neppure intanto che ci si siede a mangiare insieme: (forse per il troppo disaccordo persino sulle vivande che vengono imbandite, detto metaforicamente). Ciascuno continua a fare la propria chiesa secondo la propria testa. Si dice: "ogni sagrestia decide la propria liturgia", ma non sempre per creare la molteplicità nell'unità. Esistono troppe discrepanze e abusivismi. Lavoriamo volentieri con le persone che ci assecondano e a rispettosa distanza dalle persone che ci contestano e che ci inducono a verifiche giuste più severe sulle nostre scelte pastorali. Ignoriamo volentieri le persone che ci ignorano diffondendo così a macchia d'olio la periferia anonima della parrocchia per cui corre il rischio, la nostra, di divenire una chiesa d'élite chiusa al problema missionario interno. Si preferisce sfuggire all'impegno della testimonianza quando ci compromette e ci può costare odiosità, tempo e soldi. Noi non possiamo buttarci a destra o a sinistra oppure rimanere qualunquisti o indifferenti, perchè noi siamo per l'uomo indipendentemente da qualsiasi colore. Capita di essere ammalati di autosufficienza, incapaci di avere orecchi per ascoltare, apertura per condividere, disponibilità per collaborare e coinvolgere tutta la comunità nel decidere insieme le scelte pastorali. Il dinamismo e l'immobilismo sono due estremi che si toccano col rischio di trascurare ciò che è fondamentale per la pastorale che deve mirare alla promozione delle persone e dei problemi vivi di una comunità. Il narcisismo ci può indurre a essere come dei cani allo specchio senza che s'accorgano di abbaiare contro se stessi. Così avviene ad esempio quando sappiamo diagnosticare a meraviglia le magagne degli altri senza vederci dentro anche le proprie. Il sacramentalismo, come la gettoniera del S.mo S.to, ci può rendere paghi e soddisfatti senza cambiare nulla nella gente confortando la convinzione che risolto il problema sacramenti siano giocoforza risolti anche i problemi della vita per cui ci si può permettere di andare avanti come sempre a isolare sempre di più il fatto religione nell'ambito delle sagrestie mortificando la fede sul piano pratico della testimonianza. È opportuno non indulgere troppo ai risultati appariscenti delle manifestazioni di massa poiché le persone si promuovono soprattutto con un rapporto di amicizia individualmente. L'impegno sociale per la prevenzione e per la cura dei mali, o meglio dei disastri dei nostri tempi, affatica a entrare nei nostri programmi pastorali troppo parziali e per nulla incisivi nella realtà d'affrontare. La coerenza del sacerdote e degli operatori della pastorale è il segreto dell'efficacia di ciò che si afferma e di ciò che si opera. Si esige una verifica per vedere cosa si può fare insieme e per rendersi conto di ciò che rimane da fare.
Don Giulio
I° Evangelizzazione privilegiata nella celebrazione liturgica.
Bisogna tornare sull'idea di Dio per correggere le deformazioni della religiosità contemporanea, per conoscere il pensiero della gente che si è fatta di Dio e, con la gente, del prete che finisce per predicare un Dio che non ha nulla o ben poco di cristiano, o un Dio troppo duro, il "deus olimpicus" pronto a scagliare fulmini contro chi sbaglia, un Dio che ti sorprende sempre nei tuoi sbagli per nulla remissivo; ovvero un Dio pappamolla che non vale niente, che tollera tutto di buon grado come un nonno rincitrullito, ma che non cambia nulla della nostra vita perchè ci permette di vivere come se non esistesse; oppure un Dio tappabuchi impegnato soltanto a rimediare ai nostri misfatti. Magari si predica Dio sul piano dogmatico da una parte, ma lo si rifiuta poi sul piano pratico delle scelte dall'altra. Non c'è coerenza tra il dire e il fare. A volte si considera Dio come l'unica testa sbagliata da convertire, perchè sbaglia tutto e se arriva, è troppo tardi: (dov'era Dio quando mio figlio si è schiantato con la sua vettura? Era al suo posto)! Lo si invoca come un castigamatti, ma per le mattate degli altri e non certo per le nostre. Poi si rifiuta sdegnosamente la sua interferenza nei fatti nostri che vogliamo decidere per conto nostro: (vedi il libero amore, il divorzio, l'aborto, lo sfruttamento dei poveri...). Il Dio che predichiamo noi comunque non fa più presa sulla gente che si sente annoiata o indifferente; sembra non appartenga affatto alla nostra storia. Da qui una seria verifica dell'idea che abbiamo di Dio. Bisogna tornare al Dio della parola e della testimonianza, al Dio della Scrittura che non è ne un boia nè uno sdolcinato, ma è il Dio dell'amore che si dona totalmente in Cristo per coinvolgerci tutti nel suo amore per i fratelli. L'amore è esigente, non ci permette di dormire sugli allori o di consumare i suoi doni nel disamore. L'amore esige infatti di possedere la persona che ama e per cui si dona. Il Dio che teniamo fuori di casa, non è il Dio che ci salva, non è il Dio che ha fatto irruzione nella nostra vita per decidere con le sue scelte il nostro comportamento. Il Dio del credo: lo voglio in cielo e in terra; che voglio perchè mi vuole; lo voglio anche se dovessi morire perchè in Lui rivivrò. Il Dio del Credo: è "totaliter alter": la trascendenza di Dio sorpassa infinitamente ogni creatura e noi siamo incapaci di comprenderlo; è anche "totaliter aequalis" perchè mi ha fatto a sua immagine e somiglianza per cui io sono in Lui e Lui è in me. L'idea che abbiamo di Dio si riflette sull'idea che abbiamo anche dell'uomo.
II° - Testimonianza della carità
Abbiamo problemi scottanti di rapporto tra di noi. Il famigerato "camminare insieme" non si realizza a volte neppure intanto che ci si siede a mangiare insieme: (forse per il troppo disaccordo persino sulle vivande che vengono imbandite, detto metaforicamente). Ciascuno continua a fare la propria chiesa secondo la propria testa. Si dice: "ogni sagrestia decide la propria liturgia", ma non sempre per creare la molteplicità nell'unità. Esistono troppe discrepanze e abusivismi. Lavoriamo volentieri con le persone che ci assecondano e a rispettosa distanza dalle persone che ci contestano e che ci inducono a verifiche giuste più severe sulle nostre scelte pastorali. Ignoriamo volentieri le persone che ci ignorano diffondendo così a macchia d'olio la periferia anonima della parrocchia per cui corre il rischio, la nostra, di divenire una chiesa d'élite chiusa al problema missionario interno. Si preferisce sfuggire all'impegno della testimonianza quando ci compromette e ci può costare odiosità, tempo e soldi. Noi non possiamo buttarci a destra o a sinistra oppure rimanere qualunquisti o indifferenti, perchè noi siamo per l'uomo indipendentemente da qualsiasi colore. Capita di essere ammalati di autosufficienza, incapaci di avere orecchi per ascoltare, apertura per condividere, disponibilità per collaborare e coinvolgere tutta la comunità nel decidere insieme le scelte pastorali. Il dinamismo e l'immobilismo sono due estremi che si toccano col rischio di trascurare ciò che è fondamentale per la pastorale che deve mirare alla promozione delle persone e dei problemi vivi di una comunità. Il narcisismo ci può indurre a essere come dei cani allo specchio senza che s'accorgano di abbaiare contro se stessi. Così avviene ad esempio quando sappiamo diagnosticare a meraviglia le magagne degli altri senza vederci dentro anche le proprie. Il sacramentalismo, come la gettoniera del S.mo S.to, ci può rendere paghi e soddisfatti senza cambiare nulla nella gente confortando la convinzione che risolto il problema sacramenti siano giocoforza risolti anche i problemi della vita per cui ci si può permettere di andare avanti come sempre a isolare sempre di più il fatto religione nell'ambito delle sagrestie mortificando la fede sul piano pratico della testimonianza. È opportuno non indulgere troppo ai risultati appariscenti delle manifestazioni di massa poiché le persone si promuovono soprattutto con un rapporto di amicizia individualmente. L'impegno sociale per la prevenzione e per la cura dei mali, o meglio dei disastri dei nostri tempi, affatica a entrare nei nostri programmi pastorali troppo parziali e per nulla incisivi nella realtà d'affrontare. La coerenza del sacerdote e degli operatori della pastorale è il segreto dell'efficacia di ciò che si afferma e di ciò che si opera. Si esige una verifica per vedere cosa si può fare insieme e per rendersi conto di ciò che rimane da fare.
Don Giulio
IL NUOVO ALTARE CONCILIARE
DELLA PARROCCHIALE
Per la festa patronale di S. Lorenzo, riuscita in quest'anno straordinariamente solenne anche per la presenza del nostro vescovo Mons. Angelo Paravisi, è apparso sul presbitero della nostra parrocchiale il nuovo altare conciliare assai gradito e ammirato da tutti. Si tratta di un'opera insigne dello scultore Alberto Meli di Luzzana, autore anche di tutte le altre opere in bronzo che figurano nella nostra chiesa: il battistero, il porta cero pasquale annesso con il leggio e il leggio dell'ambone riposto sulla balaustra di sinistra per chi guarda all'altare maggiore. L'altare nuovo raffigura, sempre in bronzo, fuso dalla fonderia Baldis di Seriate, il martirio di S. Lorenzo bruciato vivo sulla graticola. È molto semplice e arioso per cui si inserisce nel contesto di tutto il presbiterio con rispetto delle opere preesistenti senza turbarne l'equilibrio. Nella chiesa primitiva si celebrava sulle tombe dei martiri e noi di Zogno celebriamo sul martirio di S. Lorenzo nostro patrono. Se avessimo fatto la scelta di un altare marmoreo avrebbe appesantito il presbiterio e avrebbe poi richiesto la eliminazione delle balaustre di notevole valore, fatto che mi auguro non avvenga mai a Zogno così come purtroppo si è avverato in moltissime chiese senza nessun rispetto dell'arte, della storia e della pietà dei fedeli col pretesto di una riforma liturgica dissennata che ha permesso di massacrare presbiteri importanti per la sostituzione di opere di cattivo gusto. Il costo dell'opera si riduce alla spesa della fusione e a un modesto contributo all'artista che meriterebbe una più adeguata ricompensa. Un grazie sincero all'autore, al fonditore e a quanti hanno reso generosamente possibile la realizzazione dell'opera che ha ulteriormente abbellito la nostra prepositurale e che rimarrà a ricordo della celebrazione della festa patronale del 10 agosto 1994.
don Giulio |
NATALE 1994
Il S. Natale continua fortunatamente ad esercitare col suo fascino un irresistibile richiamo per tutti. È un richiamo per i piccoli che gioiscono per tutto ciò che il Natale costituisce per loro per cui sono essi stessi i trasmettitori della nostra gioia natalizia più grande che possiamo vivere a livello di famiglia e di comunità. Se non ci fossero i bambini non sarebbe Natale più per nessuno anche perchè i bambini dicono con la loro presenza che Dio resiste da innamorato in mezzo a noi e alle nostre cattiverie con il suo grande messaggio di amore umano e divino. Il Natale è un richiamo per gli adulti che vanno affannosamente alla ricerca di ciò che non può appagare la nostra brama di felicità e si rendono così consapevoli che non ciò che viene dal mondo ma ciò che viene dal cielo può rendere felice l’uomo. È un richiamo per gli anziani che si apprestano serenamente a celebrare il Natale con tutti i loro cari che li hanno preceduti nella pace eterna del cielo. È un richiamo per gli infermi e per gli emarginati divorati dalla tristezza e dal dolore perché abbiano a ritrovare la speranza e la gioia di sopravvivere con la grazia di Colui che ci conforta. È un richiamo per quelli che credono e vivono intensamente il mistero di un Dio che si è fatto uomo perchè l’uomo possa diventare suo figlio. È un richiamo anche per quelli che non credono, ma soffrono la mancanza della fede che illumina la loro esistenza, perchè rinasca in loro un’invincibile nostalgia di Dio che li riconduca sulla via di Betlemme alla ricerca della vera luce capace di dissipare le loro tenebre. Il Natale dischiuda, per così dire, l’uscio di casa per riaccogliere nella gioia chi se ne è andato via rinnegando la propria famiglia perchè possa ritrovare nell’intimità della stessa famiglia i grandi valori della vita sorgente di serenità e di pace. Il Natale intenerisca il cuore di ciascuno di noi all’insegna della fratellanza universale nel reciproco rispetto delle persone e nella amorevole condivisione di tutti i problemi umani che affliggono l’umanità a causa dell’egoismo e dell’odio che proliferano nel mondo discordia e violenza. Il Natale col fascino del suo richiamo riporti a tutti indistintamente pace e amore. Buon Natale di tutto cuore ai vicini e ai lontani che unisco affettuosamente in un unico abbraccio in Cristo Gesù.
don Giulio G.
don Giulio G.