1998
VIVIAMO LA QUARESIMA
MEDITANDO I NOVISSIMI
I cristiani non ignorano la morte di Gesù Cristo per dare significato alla propria morte intesa come la porta che si apre alla vera vita che non tramonterà mai. Intanto il nostro mondo di fronte al problema della morte e dell’aldilà si comporta con indifferenza o sadicamente così come ci viene dimostrato dai tanti fatti di cronaca di ogni giorno. Ad esempio, Alberto, ragazzo di seconda superiore nel marzo scorso si è suicidato «per sapere cosa c’è dopo la morte, se hanno ragione i cristiani o i musulmani» (Corriere della Sera del 15/3/1997). Ha scelto la scuole come palcoscenico per questo atto eroico, o da incosciente, della morte spettacolo, come una sfida alla società. Nell’estate scorsa (cfr. La Repubblica del 23/8/1997) sia a Trieste che a Genova, un cadavere è rimasto diverse ore tra i bagnanti indifferenti, incapaci di guardare in faccia alla morte. Il tema della morte è tornato a galla di prepotenza a riguardo dei bambini uccisi dai pedofili; dei caduti del sabato sera (la guerra che abbiamo inventato in questi nostri tempi, annovera più vittime di tutte le guerre del passato); delle vittime dell’usura; dei funerali spettacolo come quello della principessa d’Inghilterra; dell’eutanasia; del regolamento dei conti; dei sequestratori di persone scomparse nel nulla. Una società che nega la morte, va poi a ruba dell’animaletto virtuale detto «tamagotchi» che esige grande cura altrimenti muore. Dei bambini di fronte alla morte di «tamagotchi» in cui si sono immedesimati hanno rifiutato di sopravvivere. La cultura della morte è entrata ormai nel quotidiano, come una sfida, ammettendo tutto ciò che rientra nel rischio per la vita sotto l’indifferenza di un mondo che sta a guardare, quasi divertito, per nulla preoccupato di correre ai ripari per le troppe vittime volute dai calcoli fatti sulla pelle di innocenti, o di incoscienti, come bambini, giovani e non più giovani, persone che contano appena nella misura in cui possono essere sfruttate. Altra scoperta di questi nostri tempi, là dove l’evoluzione sembra abbia fatto passi da gigante, è l’ortotanasista, cioè lo psicologo che accompagna il malato verso la morte aiutandolo ad accettare i propri limiti e a non pretendere certezze dopo la morte. Viene così offerta al malato terminale l’illusione fatta di sogni, di fantasie, di desideri perduti, cioè, d’inconscio. Si è eliminata l’assistenza del sacerdote coi conforti religiosi riferiti a un Dio che accompagna l’uomo in vita e in morte al proprio fine ultimo che è il conseguimento della vita eterna. Per chi crede, la morte ha gli occhi di Cristo, il nostro unico Salvatore, che dall’alto della croce attira tutti a sè per essere con noi nella nostra morte affinché noi abbiamo a essere con lui nella risurrezione. Cristo è morto infatti per la salvezza di tutti. È importante che anche noi abbiamo a morire per il medesimo scopo partecipando alla solidarietà di Cristo per tutta l’umanità. Esiste anche l’ipotesi della reincarnazione che ci riporta sempre, ripetutamente, sul patibolo del condannato a morte. Cristo è morto una sola volta per tutte perché ciascuno di noi potesse trovare nell’unica morte di Cristo la propria salvezza. Se poi siamo eredi, perché figli del Padre, con la morte si va a ricevere l’eredità promessa da Dio ai suoi servi fedeli: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25, 31-46), dirà Gesù Giudice alla fine del tempo. Pertanto la nostra morte è la rinascita alla vera vita conformemente alla parabola del seme di cui parla Gesù: «Se il seme non muore, rimane solo, ma se muore produce molto frutto» (Gv 12,24). Ciascuno di noi è come il figliol prodigo che, dopo la triste esperienza terrena, toma alla casa del Padre per avere nella sua casa ciò che nella vita presente non è possibile ottenere. Ciò avviene con la conversione. Le conseguenze del «post mortem» ciascuno se le decide col proprio modo di vivere in bene e in male. Ma dal momento che conosciamo la nostra fragilità, persino il giusto pecca sette volte al giorno, dobbiamo sempre far ricorso alla misericordia di Dio per mezzo di Gesù Cristo che ha già espiato tutte le nostre colpe con la sua morte di croce. Non ci salveremo per i nostri meriti quindi, e possiamo aggiungere, non ci danneremo per i nostri peccati. Qui la scappatoia ce la offre Gesù Cristo affermando: «Usate misericordia se volete conseguire misericordia»... ovvero: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Le 6,36). «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5,3 ss. e Le 6,20), E nella preghiera del Padre Nostro (Mt 6,9-13) diciamo al Signore: «Perdona a noi i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori». Dio tuttavia la sua misericordia la esercita mediante la Chiesa: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la testa sarà legato anche in cielo e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18,18 e Gv 20,23). Se non possiamo pertanto fare affidamento su di noi, possiamo fare affidamento su Dio riconoscendo i nostri peccati e invocando la sua misericordia. La Quaresima infatti è tempo di conversione. Chi ha tempo, tuttavia, non aspetti tanto perché passa in fretta la scena di questo mondo: «Che giova all’uomo guadagnare anche tutto il mondo se poi perde la propria anima?» (Mt 16,26).
Buona Quaresima.
don Giulio
Buona Quaresima.
don Giulio
SEMPRE IN VISTA
DEL GIUBILEO DEL 2000
Il vento misterioso dello Spirito Santo è indicato da Gesù a Nicodemo, mentre andava di notte a trovare il Maestro: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio». E di fronte all’obiezione di Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio?». Gesù soggiunge: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acque e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato da carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito è Spirito... Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,1 ss.). Il vento è il segno della presenza dello Spirito Santo che alita di sua iniziativa su chi si apre alla sua opera e senza condizionamenti accetta di essere rigenerato, col battesimo, figlio di Dio, per cui si rende capace di credere a questa vita nuova che Gesù rivela e di cui lo Spirito Santo è la sorgente, poiché la si vive solo come dono. L’immagine dell’albero è suggerita dall’azione del vento su cui si manifesta. Gesù infatti raffigura l’uomo all’albero (Mt 7,17): «Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi, un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produce frutti buoni... Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere» (Mt 7,17; 12,33 e Le 3,9). Ricordiamo anche la parabola del fico infruttuoso (Le 13,6 s) e del fico inaridito al comando di Gesù (Mt 11,13,20; Mt 21,19). Se l’albero si apre all’azione dello Spirito Santo che opera la rinascita come figlio di Dio, fa frutti buoni e fa parte del regno di Dio. È lo Spirito Santo infatti il protagonista di tutto ciò che Dio opera nella creazione e nella redenzione dell’umanità a partire dal concepimento verginale di Maria S.ma. Praticamente lo Spirito Santo è il missionario della nuova evangelizzazione che continua dalla Pentecoste sino a noi e oltre. Se torniamo all’immagine dell’albero su cui opera il vento (fecondazione anemofila), spiritualmente parlando, lo Spirito Santo feconda l’albero umano, come Maria S.ma, immettendovi il seme della divinità e creando in più tra albero e albero la comunione dei santi in Cristo Gesù. Quando siamo sorpresi dalla presenza di un albero esotico ci chiediamo «chi mai l’ha seminato?». Può essere il vento che ha recato sulle sue ali quel seme abbandonato poi sul terreno in cui è cresciuto. Non dobbiamo poi tanto meravigliarci quindi se Gesù ha detto «In verità vi dico: i pubblicani (i peccatori) e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli» (Mt 21,31). Gesù ha sradicato così i confini giuridici della Chiesa per permetterle di espandersi fin là dove lo Spirito Santo opera inseminando i semi di Dio al di fuori del nostro ambiente come alberi esotici che fa crescere dove vuole o dove, meglio, trova il terreno più adatto. I santi infatti non sono quelli che non commettono mai nessun peccato e osservano tutte le leggi, come i farisei, ma quelli che si lasciano coinvolgere dal messaggio del regno di Dio convertendosi come Zaccheo, la Samaritana, Maria Maddalena, S. Agostino, S. Francesco, S. Margherita la penitente, ecc… Il seme con cui lo Spirito Santo feconda le anime è la parola di Dio, cioè Gesù Cristo in persona. La parola di Dio, lo Spirito Santo l’affida poi a ciascuno di noi perché abbiamo a proclamarla, a celebrarla e a testimoniarla. Se non si ama la gente (cioè i fratelli), ciò che si annuncia rimbalza e torna al mittente come una lettera con indirizzo a un destinatario sconosciuto. Se non si ha l’umiltà del cuore si rischia di suscitare ammiratori di se stessi (narcisismo) più che la gloria di Dio. Se non ci si rende conto della nostra nullità e non si coglie la parola di Dio nel silenzio, non può lavorare profondamente nella vita interiore e crescere dentro nel santuario della nostra vita là dove dobbiamo fare la scoperta della presenza di Dio che ci attende, così come affermava anche S. Agostino «...mentre Tu eri dentro di me, io ero fuori di me...», per cui la ricerca è infruttuosa e incomunicabile. Lo Spirito Santo non può tuttavia operare, come il vento, su un albero secco incapace di ricevere e di donare nulla, come nel caso di un cristiano che non si impegna a vivere in grazia di Dio. La Chiesa è paragonata alla luna, cresce con la proclamazione della parola di Dio e raggiunge la sua pienezza quando la si celebra e la si traduce nella testimonianza sempre sotto la guida dello Spirito Santo che ci aiuta, come afferma Cristo, a comprendere tutta intera la verità. Se la Chiesa è come la luna, brilla di luce riflessa, per così dire, poiché Cristo è il sole. Ma dal momento che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo di cui Lui è il capo e noi le membra, si deve affermare che anche la Chiesa brilla dell’unica luce di Cristo, che è la Parola del Padre giunta a noi sempre attraverso l’opera dello Spirito Santo che la diffonde sino agli estremi confini della terra. Come si afferma da S. Agostino di Giovanni Battista, noi pure siamo chiamati a essere la voce della parola che è Cristo, per cui proclamandola, celebrandola e testimoniandola ci affermiamo come profeti, che dicono la parola di Dio, come sacerdoti, che la celebrano, e come re, che la traducono nella testimonianza della propria vita o nel servizio. In ogni caso, sia come sacerdoti, profeti e re dobbiamo ricevere l’unzione dello Spirito Santo rinascendo dall’alto, cioè dall’acqua e dallo Spirito, che è il fuoco dell’amore di Dio. È una rinascita che non avviene una volta per sempre ma deve estendersi a tutto l’arco della nostra esistenza, sempre affidata all’opera dello Spirito Santo che la vivifica.
don Giulio
don Giulio
PASQUA 1998
Cristo è risorto. Alleluia! Esplode questo grido di gioia incontenibile della fede del cristiano che riconosce nel fatto della Risurrezione di Cristo la prova più inconfutabile della sua divinità e della sua missione sulla faccia della terra in cui è venuto a portare la salvezza per tutto il genere umano. Dov’era la morte, ha portato la vita; dov’erano le tenebre, ha portato la luce: dov’era l’odio, ha portato l’amore; dov’era la perdizione, ha portato la salvezza! Il «Verbum caro factum est» del Natale e il «Cristo morto in croce» del Venerdì Santo, è diventato il «Cristo Risorto da morte che è con noi! Alleluia!». La celebrazione pasquale torna ogni anno con la sua grande carica di gioiosa speranza a farci rivivere tutto il mistero di Cristo nostro Salvatore. «Se il Cristo non fosse risorto, sarebbe vana la nostra fede» afferma l’Apostolo Paolo. Ci sentiremmo burlati! È sempre Pasqua per il cristiano che si ritrova ogni domenica a celebrare il grande evento coi propri fratelli di fede. Infatti, il cristiano appartiene già, come membro dell’unico corpo di Cristo, che è la Chiesa, alla risurrezione gloriosa del suo capo, Gesù Cristo. Dobbiamo pertanto vivere nella santa letizia del Risorto che è con noi come l’unico Salvatore di ieri, di oggi e di sempre. Ci avviamo così, con questo spirito di fede, alla grande celebrazione del Giubileo del 2000 a cui tutto il mondo dei credenti, e non soltanto, è rivolto per rendere a Cristo la testimonianza del proprio amore all'insegna della riconoscenza a Dio che, dopo averci fatti a sua immagine e somiglianza, ci ricupera dalla colpa e dalla perdizione rigenerandoci come suoi figli e destinandoci a conseguire il regno in quanto fatti anche eredi della sua eterna gloria. La morte ha subito in Cristo sulla croce la sua irrimediabile sconfitta in quel «mirabile duello» in cui la vita ha divorato la stessa morte liberandoci tutti dalle sue fauci e dalle terribili conseguenze. Gesù Cristo è risorto infatti da morte perché anche tutti noi potessimo risorgere con Lui a vita nuova. Esultiamo quindi nel Risorto, così come ci invita la celebrazione della Pasqua, predisponendoci spiritualmente con la nostra conversione a ricevere la grazia del suo perdono.
Auguri di tutto cuore a tutta la popolazione. Aff.mo don Giulio |
IL MESE MARIANO
Il Mese Mariano ci riaccosta alla Vergine Maria come figli alla propria madre. Gesù ha detto: «Se non diventerete piccoli come i bambini non entrerete nel regno di Dio» (Mt 18,3). E a Nicodemo, disse: «... se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). Per tornare piccoli come i bambini ci vuole una madre capace di rigenerarci, s’intende, spiritualmente. La Vergine Maria svolge per noi proprio questa missione materna quando vogliamo metterci a sua disposizione. L’uomo ha sempre bisogno di una madre, sia per venire al mondo e sia in ogni circostanza della sua vita, umanamente parlando, perché tutta la vita comporta una continua rinascita di fronte all’esperienza che è in continuo cambiamento. Ma soprattutto, come cristiano, l’uomo spiritualmente parlando esige una continua rigenerazione, praticamente è la nostra conversione, che ci impedisce d’invecchiare e di morire e ci rende così nella pienezza della grazia capaci di conseguire la vita eterna. Dalla Vergine noi solitamente invochiamo favori e grazie a buon mercato come bambini viziati che non sanno staccarsi dal grembiule della madre rischiando di dover rinunciare così alla naturale crescita per cui non si diventa mai adulti. Non è questa la vera devozione da tributare alla Vergine tenendola come di scorta per tutti i casi di necessità che si possono riscontrare nella vita. Alla Vergine Maria dobbiamo accostarci per la nostra crescita spirituale che comporta la decrescita di cui parlava Cristo da tutto ciò che nella nostra vita abbiamo costruito a danno della virtù e della santità: «Che cosa giova all’uomo guadagnare anche tutto il mondo se poi perde la propria anima» (Mt 16,26)! Infatti, di fronte al grido gioioso di una madre che al seguito di Gesù esclama: «Beato il seno che ti allattò» (Lc 8,21), il Maestro rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 11,28). La Madonna è la Vergine dell’ascolto e della testimonianza per cui quando Gesù pronunziò quella frase dovette pensare soprattutto a sua madre. Infatti, anche la crescita di Gesù è dipesa dalla parola di Dio, del Padre, che ha ricevuto sin dalla sua prima infanzia dalla Vergine Madre tanto edotta al riguardo. Un nutrimento che la Madonna ha sempre anche a nostra disposizione è la parola di Dio d’ascoltare e da mettere in pratica secondo il suo esempio. Così vengono rigenerati e crescono i figli del Padre celeste per divenire capaci di conseguirne il regno. Questa volta col latte materno spirituale di Maria c’è anche il latte paterno di Dio che non possiamo ricevere se non si torna a rinascere come Cristo figli di Dio e di Maria. Il mese mariano deve quindi ricondurci a Maria per questa nostra rinascita indispensabile per poter conseguire la vita eterna e non già per avere in Lei, come s’è detto, una riserva di favori e di grazie per poter attingere nei momenti delle nostre necessità temporali anche se non è escluso in secondo luogo questo aspetto della devozione mariana sempre affidato comunque al disegno della divina volontà che vede meglio dall’alto ciò di cui ciascuno di noi abbisogna per realizzare il disegno di Dio che è più grande di noi e che ci viene comunicato di volta in volta siamo chiamati a dire, come Maria, il nostro sì al Signore.
Che la Vergine ci aiuti!
don Giulio
Che la Vergine ci aiuti!
don Giulio
IN PREPARAZIONE
AL GRANDE GIUBILEO DEL 2000
Bergamo nel 1998-1999 affronta come programma pastorale il tema dell’Eucaristia che si concluderà con la celebrazione del Congresso Eucaristico diocesano. L’Eucarestia è fonte e culmine della vita della Chiesa.
— È fonte perché l’Eucaristia rinnova sacramentalmente la presenza di Cristo come Capo del suo corpo che è la Chiesa e ne è quindi la vita alla maniera della vite e i tralci: Lui la vite-vita e noi i tralci come sue membra con cui Egli si espande nella storia salvifica a tutta intera l’umanità.
— È culmine perché rende attuale in ogni tempo tutta l’opera della Redenzione operata da Cristo attraverso il sacrificio della croce in piena conformità alla volontà del Padre che ha inviato il suo Figlio unigenito sulla terra per dare compimento alla salvezza dell’umanità che trova in Gesù Cristo tutto ciò che il Padre medesimo ha donato di sè all’uomo, cioè la sua paternità per cui l’uomo è chiamato ad essere ed è realmente figlio di Dio per mezzo del Battesimo che ritrova nella Eucaristia il suo riscontro con la morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Praticamente l’Eucaristia è il luogo in cui avviene e si rinnova la salvezza che Dio continua a proporre all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. L’Eucaristia è il banchetto con cui il Padre celebra le nozze del Figlio suo con l’umanità, per cui chi rifiuta l’Eucaristia, rifiuta la salvezza. Si esige pertanto il rapporto tra Eucaristia e Penitenza, tra Eucaristia e conversione, tra Eucaristia e perdono. E un rapporto carico di aspetti liturgici e simbolici, cioè di riti di purificazione, di pentimento, di penitenza, di conversione con cui il fedele, l’uomo, si accosta a Dio, in maniera da non andare a ricevere la propria condanna al posto della salvezza, come ci ammonisce S. Paolo. All’Eucaristia bisogna accostarsi per avere la salvezza, quindi con le dovute disposizioni, per non rischiare la propria condanna. Nella parabola del Vangelo delle nozze del Figlio del Re (Mt 22, 1 ss.) il commensale entrato al banchetto senza veste nuziale viene legato e gettato fuori nelle tenebre dove è pianto e stridore di denti. L’Eucaristia afferma in sè un’esigenza comunitaria quale banchetto a cui sono invitati tutti coloro che vogliono fare parte del regno di Dio, nessun posto deve rimanere scoperto. Viene così affermata l’universalità della Chiesa che come madre raccoglie tutti i suoi figli attorno all’unico banchetto perché abbiano a trovare in esso la sorgente della vera vita. Nell’Eucaristia ancora si concentra tutta la storia della salvezza di tutta l’umanità in cui, nell’Eucaristia, è presente tutto il passato e il futuro in quanto traccia il cammino di Dio incontro all’uomo e il cammino dell’uomo incontro al suo Dio. L’Eucaristia quindi, in altre parole, è la via che Dio continua a percorrere come Buon Pastore per salvare il peccatore visto sotto l’immagine della pecorella smarrita, ed è nel contempo la via che l’uomo, visto sotto l’immagine del figliol prodigo, percorre per tornare alla casa del Padre. Forse si può capire così quanto sia importante il S. Viatico, l’Eucaristia che riceve chi si appresta ad affrontare l’eternità per percorrere quel cammino sconosciuto con colui che l’ha già percorso per noi e torna a farsi compagno di viaggio per ciascuno di noi nel trapasso dalla vita terrena incontro al Padre. Il Padre infatti ha inviato il suo Figlio unigenito alla ricerca del fratello perduto perché lo potesse ritrovare per cui il figliol prodigo, applicando un aggiornamento alla parabola del Vangelo, torna questa volta, non da solo, ma col fratello buon pastore. Nel prossimo anno 1998-1999, in preparazione immediata al Giubileo del 2000, il Vescovo di Bergamo, mons. Roberto Amadei, vuole, anche con la celebrazione del Congresso Eucaristico diocesano, proporci come programma pastorale una approfondita riflessione, revisione critica, circa le pratiche liturgiche relative all’Eucaristia colta come sacramento redentore di Cristo riferito alla penitenza e alla conversione. Si deve riflettere sul come viene vissuta l’Eucaristia in questi tempi, con quali riti e con quali segni che abbiano ancora in sè la capacità di riportare le nostre comunità parrocchiali a celebrare e a vivere efficacemente il dono di Dio offertoci nell’Eucaristia, talora profanata, talora usata come circostanza per sfogarsi in banchetti e sprechi e costumi di vita che tradiscono la missione dell’Eucaristia medesima! Si apre così un vasto campo di ricerca, di lavoro e di verifica per tutti i gruppi impegnati nella pastorale parrocchiale, fissando il punto di riferimento dogmatico e pastorale più significativo nella Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla liturgia per poter ritrovare nell’Eucaristia il luogo della presenza del Signore nella sua Chiesa e il luogo in cui la Chiesa esprime se stessa come popolo sacerdotale, profetico e regale in cammino verso la Parusia sotto l’azione dello Spirito Santo che riconduce gli uomini al Padre rendendoli popolo di comunione e di missione per cui diviene storia di salvezza rendendo così presente il Signore nella vita di ciascuno e dell’intera umanità.
dg
— È fonte perché l’Eucaristia rinnova sacramentalmente la presenza di Cristo come Capo del suo corpo che è la Chiesa e ne è quindi la vita alla maniera della vite e i tralci: Lui la vite-vita e noi i tralci come sue membra con cui Egli si espande nella storia salvifica a tutta intera l’umanità.
— È culmine perché rende attuale in ogni tempo tutta l’opera della Redenzione operata da Cristo attraverso il sacrificio della croce in piena conformità alla volontà del Padre che ha inviato il suo Figlio unigenito sulla terra per dare compimento alla salvezza dell’umanità che trova in Gesù Cristo tutto ciò che il Padre medesimo ha donato di sè all’uomo, cioè la sua paternità per cui l’uomo è chiamato ad essere ed è realmente figlio di Dio per mezzo del Battesimo che ritrova nella Eucaristia il suo riscontro con la morte e risurrezione di Gesù Cristo.
Praticamente l’Eucaristia è il luogo in cui avviene e si rinnova la salvezza che Dio continua a proporre all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. L’Eucaristia è il banchetto con cui il Padre celebra le nozze del Figlio suo con l’umanità, per cui chi rifiuta l’Eucaristia, rifiuta la salvezza. Si esige pertanto il rapporto tra Eucaristia e Penitenza, tra Eucaristia e conversione, tra Eucaristia e perdono. E un rapporto carico di aspetti liturgici e simbolici, cioè di riti di purificazione, di pentimento, di penitenza, di conversione con cui il fedele, l’uomo, si accosta a Dio, in maniera da non andare a ricevere la propria condanna al posto della salvezza, come ci ammonisce S. Paolo. All’Eucaristia bisogna accostarsi per avere la salvezza, quindi con le dovute disposizioni, per non rischiare la propria condanna. Nella parabola del Vangelo delle nozze del Figlio del Re (Mt 22, 1 ss.) il commensale entrato al banchetto senza veste nuziale viene legato e gettato fuori nelle tenebre dove è pianto e stridore di denti. L’Eucaristia afferma in sè un’esigenza comunitaria quale banchetto a cui sono invitati tutti coloro che vogliono fare parte del regno di Dio, nessun posto deve rimanere scoperto. Viene così affermata l’universalità della Chiesa che come madre raccoglie tutti i suoi figli attorno all’unico banchetto perché abbiano a trovare in esso la sorgente della vera vita. Nell’Eucaristia ancora si concentra tutta la storia della salvezza di tutta l’umanità in cui, nell’Eucaristia, è presente tutto il passato e il futuro in quanto traccia il cammino di Dio incontro all’uomo e il cammino dell’uomo incontro al suo Dio. L’Eucaristia quindi, in altre parole, è la via che Dio continua a percorrere come Buon Pastore per salvare il peccatore visto sotto l’immagine della pecorella smarrita, ed è nel contempo la via che l’uomo, visto sotto l’immagine del figliol prodigo, percorre per tornare alla casa del Padre. Forse si può capire così quanto sia importante il S. Viatico, l’Eucaristia che riceve chi si appresta ad affrontare l’eternità per percorrere quel cammino sconosciuto con colui che l’ha già percorso per noi e torna a farsi compagno di viaggio per ciascuno di noi nel trapasso dalla vita terrena incontro al Padre. Il Padre infatti ha inviato il suo Figlio unigenito alla ricerca del fratello perduto perché lo potesse ritrovare per cui il figliol prodigo, applicando un aggiornamento alla parabola del Vangelo, torna questa volta, non da solo, ma col fratello buon pastore. Nel prossimo anno 1998-1999, in preparazione immediata al Giubileo del 2000, il Vescovo di Bergamo, mons. Roberto Amadei, vuole, anche con la celebrazione del Congresso Eucaristico diocesano, proporci come programma pastorale una approfondita riflessione, revisione critica, circa le pratiche liturgiche relative all’Eucaristia colta come sacramento redentore di Cristo riferito alla penitenza e alla conversione. Si deve riflettere sul come viene vissuta l’Eucaristia in questi tempi, con quali riti e con quali segni che abbiano ancora in sè la capacità di riportare le nostre comunità parrocchiali a celebrare e a vivere efficacemente il dono di Dio offertoci nell’Eucaristia, talora profanata, talora usata come circostanza per sfogarsi in banchetti e sprechi e costumi di vita che tradiscono la missione dell’Eucaristia medesima! Si apre così un vasto campo di ricerca, di lavoro e di verifica per tutti i gruppi impegnati nella pastorale parrocchiale, fissando il punto di riferimento dogmatico e pastorale più significativo nella Costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla liturgia per poter ritrovare nell’Eucaristia il luogo della presenza del Signore nella sua Chiesa e il luogo in cui la Chiesa esprime se stessa come popolo sacerdotale, profetico e regale in cammino verso la Parusia sotto l’azione dello Spirito Santo che riconduce gli uomini al Padre rendendoli popolo di comunione e di missione per cui diviene storia di salvezza rendendo così presente il Signore nella vita di ciascuno e dell’intera umanità.
dg
IL 10 AGOSTO 1998:
FESTA DI S. LORENZO
La devozione millenaria di Zogno a S. Lorenzo, scelto come modello di vita cristiana per la propria comunità di fede, ha inciso e deve incidere nella cultura e nel costume della nostra popolazione mentre si appresta a celebrare il secondo centenario della ristrutturazione della parrocchiale a lui dedicata. La sua mirabile testimonianza di fedeltà e di amore a Dio e ai fratelli, conclusasi eroicamente col martirio, attraversa lunghi secoli della storia del popolo zognese, giunge a noi nella pienezza del suo fulgido esempio che pure noi dobbiamo trasmettere ai posteri se vogliamo che non si estingua la vitalità della vita cristiana che abbiamo ricevuto in dono. Il nostro riferimento a S. Lorenzo si fonda tuttavia sul Battesimo con cui ciascuno di noi è stato immesso a far parte della sua comunità di fede che è la nostra parrocchia. Nella preghiera introduttiva alla celebrazione della S. Messa nella solennità patronale del Santo, la liturgia ci invita ad esprimerci così: «O Dio, che hai comunicato l’ardore della tua carità al diacono san Lorenzo e lo hai reso fedele nel servizio e glorioso nel martirio, fa che il tuo popolo segua i suoi insegnamenti e lo imiti nell’amore di Cristo e dei fratelli». Se pertanto vogliamo essere coerenti alla scelta fatta di questo nostro santo patrono, dobbiamo impegnarci a imitarne l’esempio per affermarci:
- nella fede capace di rinnovare ogni giorno la nostra giovinezza spiritualmente;
- nella carità operosa propria di chi sa donarsi con gioia: «Dio ama chi dona con gioia» (ritornello del salmo responsoriale 111 della messa di S. Lorenzo);
- nella fedeltà eroica che comporta il martirio quotidiano della perseveranza, poiché: «Soltanto chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvo» (Mt 10, 22; 24. 13), dice Gesù.
Le parole infatti volano, ma l’esempio trascina. Le giovani generazioni trovano difficoltà a credere se tutto l’impegno cristiano è imbastito solo a parole nel contesto di troppe contraddizioni. La testimonianza giovanile di S. Lorenzo ha avuto il suo culmine nella prova del fuoco in cui si è trasformato come il pane cotto nel forno mentre sprigiona il suo buon profumo per rendersi saporitamente commestibile. Questa testimonianza, della fragranza del pane, costituisce un forte richiamo all’Eucaristia in cui ciascuno di noi è chiamato a metterci la propria parte perché unitamente a Cristo che si dona possiamo donarci e condividerci alla stessa mensa. S. Lorenzo che in vita si è donato a Cristo nei fratelli e in morte a Dio col suo grande amore, continua a rivivere nell’Eucaristia che celebriamo con tutti i fedeli della comunità di fede, la nostra parrocchia, e anche con quelli che sono passati alla vita eterna se- guendo le orme del suo mirabile esempio. Il nostro incontro nella solennità di S. Lorenzo miri anche a promuovere nella gioia e nel reciproco amore la verifica del nostro modo di vivere da cristiani sia nei confronti di Dio che dei fratelli.
Con l'augurio di ogni bene e con sincero affetto,
vostro Don Giulio.
- nella fede capace di rinnovare ogni giorno la nostra giovinezza spiritualmente;
- nella carità operosa propria di chi sa donarsi con gioia: «Dio ama chi dona con gioia» (ritornello del salmo responsoriale 111 della messa di S. Lorenzo);
- nella fedeltà eroica che comporta il martirio quotidiano della perseveranza, poiché: «Soltanto chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvo» (Mt 10, 22; 24. 13), dice Gesù.
Le parole infatti volano, ma l’esempio trascina. Le giovani generazioni trovano difficoltà a credere se tutto l’impegno cristiano è imbastito solo a parole nel contesto di troppe contraddizioni. La testimonianza giovanile di S. Lorenzo ha avuto il suo culmine nella prova del fuoco in cui si è trasformato come il pane cotto nel forno mentre sprigiona il suo buon profumo per rendersi saporitamente commestibile. Questa testimonianza, della fragranza del pane, costituisce un forte richiamo all’Eucaristia in cui ciascuno di noi è chiamato a metterci la propria parte perché unitamente a Cristo che si dona possiamo donarci e condividerci alla stessa mensa. S. Lorenzo che in vita si è donato a Cristo nei fratelli e in morte a Dio col suo grande amore, continua a rivivere nell’Eucaristia che celebriamo con tutti i fedeli della comunità di fede, la nostra parrocchia, e anche con quelli che sono passati alla vita eterna se- guendo le orme del suo mirabile esempio. Il nostro incontro nella solennità di S. Lorenzo miri anche a promuovere nella gioia e nel reciproco amore la verifica del nostro modo di vivere da cristiani sia nei confronti di Dio che dei fratelli.
Con l'augurio di ogni bene e con sincero affetto,
vostro Don Giulio.
DOPO DI AVER PARLATO DELL’EUCARESTIA
UNA PROPOSTA DI RIFLESSIONE SUL SACRAMENTO
DELLA RICONCILIAZIONE
L’Eucarestia è legata strettamente al sacramento della Riconciliazione. Non possiamo infatti ammettere la nostra fruttuosa partecipazione all’Eucarestia, al banchetto delle nozze del figlio del Re, senza essere riconciliati con Dio, cioè: senza la veste nuziale richiesta. Vediamo ora succintamente il brano del Vangelo in cui Gesù Cristo Risorto affida ai suoi discepoli il potere di rimettere i peccati. «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: -Pace a voi!- Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo:- Pace a voi!- Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Dopo di aver detto questo, alitò su di loro e disse: -Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi «(Gv 20, 19-23). Al centro della missione della Chiesa, Gesù ha posto quindi il mandato di rimettere i peccati, di tirar fuori l’uomo dal suo stato di morte a causa del peccato per riportarlo alla vita mediante il sacramento della riconciliazione. I discepoli gioirono al vedere il Signore. Passano così dal timore, dalla paura dei Giudei, alla gioia del Risorto. Riprendono vita, e nel contempo ricevono la missione di ridonare la vita spiritualmente con cui si realizza rincontro col Signore, dissipando ogni paura, attraverso il perdono dei peccati. Si può affermare che la paura è generata in noi dal peccato d’origine che provoca nell’uomo un senso di colpa, di cui cerca di liberarsene, ma non gli sarà possibile finché il perdono dei peccati, che non può provenire che da Dio, non scenderà sul penitente che lo invoca per i propri peccati nell’assoluzione del sacerdote confessore ricevendone così la tangibile conferma. Tutta la Bibbia afferma che l’uomo è dominato dalla paura. Ogni volta infatti che Dio si rivela all’uomo lo rincuora affermando: «Non temere!». Ad Abramo, ad esempio, Dio si indirizza incoraggiandolo: «Non temere, Abram, io sono il tuo scudo!» (Gen. 15,1). A Giuseppe: «Non temere di prendere con te, Maria, tua sposa!» (Mt 1,20). A Maria, l’angelo inviato dal Signore: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio!» (Lc 1,30). Ai discepoli sul Lago di Tiberiade, Gesù appare camminando sulle acque: «Non abbiate paura!» (Mt 14,27). I genitori del cieco nato avevano paura dei Giudei (Gv 9,22). Nicodemo va di notte a trovare Gesù per paura dei Giudei (Gv 12,42). La gente non parla in pubblico di Gesù per paura dei Giudei (Gv 7,13). L’uomo vive nella paura sotto molteplici aspetti riconducibili tutti alle conseguenze del peccato d’origine con l’aggiunta dei peccati attuali. Il rimedio di questa paura esige il perdono che può concedere soltanto Colui che è stato offeso e, dal Vangelo, sappiamo che lo concede attraverso l’opera della Chiesa a cui Cristo ha affidato la missione del perdono. Pertanto, la confessione consiste nell’affidarsi alla misericordia di Dio facendo ricorso alla Chiesa mediante il sacramento. L’uomo che vive nello stato di colpa può momentaneamente trovare svago o evasione fin che non sopraggiunge la crisi che appartiene ai momenti critici della vita a causa di delusioni subite, di malattie contratte, di lutti e di abbandono in cui torna a galla con prepotenza il senso di colpa, ci si lascia prendere dalla paura perché ci si sente soli e indifesi contro avversità superiori alle nostre forze. Si toma a dover fare così i conti con la propria coscienza, a chiedersi che cosa si è fatto per ridursi in uno stato terribile di tristezza, per sentirsi disfatti sotto ogni aspetto. «Chi ha tempo, non aspetti tempo» dice la S. Scrittura. Bisogna rimediare subito al proprio stato di coscienza non in regola con la legge divina, prima che sopraggiunga il collasso soprattutto morale con tutte le complicanze del caso. Torniamo subito ad affidarci a Dio per essere sempre in grado di affrontare la vita serenamente in stato di grazia. «Quando il mondo non mi vuol più, mi rivolgo al buon Gesù!» Ma purtroppo il nostro domani non è nelle nostre mani! «State preparati, afferma Gesù, perché nell’ora che meno pensate il Figlio dell’uomo verrà!» (Mt 24,43 e Lc 12,39). Chi è in pace con Dio trova infatti la forza di essere in pace anche coi fratelli. Siamo chiamati a vivere in comunione con Dio e coi fratelli attraverso la conversione e la penitenza che trova il suo sigillo nell’Eucarestia in cui è presente tutta l’opera della redenzione che realizza in Cristo Gesù il regno di Dio con gli uomini. È così che si vince il senso di colpa, si supera ogni paura perché chi vive in comunione con Dio e coi fratelli non ha più motivo di temere nulla: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8, 31-35). Dio infatti ci ha garantito il suo perdono. A Pietro che gli chiedeva: «Quante volte dobbiamo perdonare, sino a sette volte?». Gesù rispose: «Sino a settanta volte sette» (Mt 18, 15-18), che vuol dire, sempre. Il figliol prodigo, quando ha voluto recuperare la sua sicurezza e la sua vera libertà, ha dovuto scegliere di percorrere la strada del ritorno alla casa del Padre. Dio infatti non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Nell’Eucarestia è tracciato tutto il cammino della redenzione e quindi anche della nostra conversione; in essa, la Chiesa, è presente come comunità dei peccatori che credono all’amore e alla divina misericordia che fluisce da Cristo Capo in comunione con tutte le sue membra che siamo noi.
d.G.G.
d.G.G.
A NOVEMBRE TORNA IL PENSIERO
DELLA BUONA MORTE
Se con novembre torna a noi il pensiero della morte deve essere messaggero di vita, della vera vita alla quale siamo chiamati quale meta e scopo della nostra esistenza terrena. Dobbiamo per tanto imparare a vincere la paura della morte come fosse un mostro macabro che a un certo punto della nostra vita ci aggredisce ferocemente come la folgore quando si abbatte su un albero stroncandolo di schianto. La verità è che la morte nasce, cresce e muore con noi, condivide la nostra stessa età. Ci appartiene come la vita poiché non c’è vita senza la morte, secondo la parabola del seme destinato a morire nel solco per riprodursi alla vita. La morte, anzi, S. Francesco la chiama sorella, è come una tenera madre che si china dolcemente a raccogliere nel suo grembo la nostra mortalità per rigenerarci a nuova vita, facendoci passare da questa valle di lacrime alla gloria celeste. Sicuramente ogni parto non è indolore! Dio medesimo, dopo di averci seminati in questo vivaio umano, terreno, secondo un suo grande progetto di amore, con la morte ci trapianta nel giardino del suo regno. Dio infatti non dimentica la sua semina. Gesù Cristo, dopo di aver affermato che lui è la vite e noi siamo i suoi tralci, soggiunge: “... mio Padre fa l’agricoltore” (Gv 15,1-4). Da quando Cristo ha accettato di morire in croce per noi, la morte è diventata generatrice di vita. Cristo medesimo è la vita mentre condivide la nostra morte: “Io sono ... la vita” (Gv 11,26). Impariamo quindi a convivere giorno per giorno con la nostra morte dal momento che già dal primo istante della nostra esistenza si comincia a morire. La morte, che prima della redenzione poteva essere ritenuta castigo del peccato, ora è il dono divino che ci rende capaci di salire dalla terra al cielo come un angelo inviato da Dio a coglierci per trapiantarci nel suo regno. Se accettiamo così la nostra morte diventa strumento di purificazione e costituisce la testimonianza più grande dell’amore di chi si riconsegna a Dio come sua creatura che, sia pure alla maniera del figliol prodigo, torna alla casa del Padre. Giustamente Gesù ci ammonisce di stare preparati perché non sappiamo quando Dio verrà a visitarci, affinché, nell’attesa vigilante, appena bussa alla porta di casa nostra, abbiamo prontamente a riceverlo come l’amico che torna per riaccompagnarci, come emigrati, nella patria dove siamo attesi. Questa è la miglior maniera di ricordare anche i nostri cari defunti predisponendoci a raggiungerli là dove ogni lacrima sarà astersa (Ap 7,17).
con affetto, don Giulio |
PROGRAMMA PASTORALE 1999
Nella preparazione al grande Giubileo del 2000, il santo Padre ha proposto alcune tappe fondamentali di preghiera e di riflessione scandite in riferimento alle tre Persone della S.ma Trinità. Quest’anno, 1999, è la volta dell’attenzione rivolta al Padre all’insegna della parabola del «Figliol Prodigo» che mira a coinvolgerci nell’impegno della nostra conversione auspicando così una riscoperta e una più intensa celebrazione del sacramento della Penitenza, al riguardo abbiamo già pubblicato una riflessione nel precedente notiziario. La celebrazione del Giubileo comporta necessariamente la nostra conversione che richiede come punto di partenza la riconciliazione con Dio e coi fratelli attraverso il sacramento del perdono gestito dalla Chiesa in forza della volontà del suo fondatore, Gesù Cristo. Ogni cristiano, e non soltanto, deve imporsi delle domande sul valore e il senso della propria vita, circa la morale e la possibilità di liberarsi dalle proprie colpe per saper vivere in pace con tutti e per proiettare nel futuro le conseguenze delle scelte della propria vita. A 25 anni dalla promulgazione del nuovo «Ordo Paenitentiae» (Dicembre 1973), non risulta che si abbiano raggiunti tuttora gli obiettivi indicati dalla riforma. Perdura infatti l’abitudine di ridurre la confessione all’accusa di una lista di peccati come se si andasse dal lavandaio con la biancheria sporca ogni volta che se ne sente la necessità. Questo comportamento crea non poco disagio nei fedeli e anche parecchia sfiducia nel sacramento perché non aiuta a cambiare la propria vita e a promuoverti cristianamente come adulto tirandoti fuori dallo stato o condizione d’infantilità, circa la fede. Si riscontra pure il fatto che nei fedeli si va attenuando il senso di Dio frequentemente escluso dalle decisioni della propria vita con le conseguenze che si perde così il senso del peccato ridotto a fatto personale di cui arbitro è esclusivamente l’individuo medesimo. Insorge pure una mentalità tipica della gioventù del giorno d’oggi per cui le colpe sono sempre degli altri, al limite di Dio, abbandonandosi a una contestazione simile a quella di un cane che abbaia contro se stesso davanti a uno specchio senza rendersi conto delle proprie responsabilità personali e di conseguenza senza decidersi a provvedere alla propria conversione. Sono tante le cose che non funzionano al mondo intanto che si buttano in giro le colpe senza avere il coraggio da parte di tutti di saper riconoscere la propria responsabilità come se il torto fosse sempre dall’altra parte. In ogni caso, oggi, si usa far ricorso alla psicologia gestita da funzionari assai abili a riscoprire da lontano le cause di ogni male offrendo così agli interessati la scappatoia di esonerarsi dalle proprie colpe che fanno ricadere ben volentieri sulla famiglia e sulla società come se queste istituzioni fossero presenti soltanto per influire negativamente su ogni caso di malessere sociale, morale e spirituale. Se la confessione viene ridotta, come già detto, a una sbrigativa accusa generica di colpe per poter scappar via in fretta, come avviene frequentemente nelle nostre chiese, non può che ricadere nel discredito e venire frequentata solo da chi vi si induce ancora nei soliti tempi forti dell’anno (vedi Natale, Pasqua, Morti) ovvero nelle circostanze tradizionali (vedi Prime Comunioni, Cresime, Matrimoni, funerali) ma con poco buon frutto. Bisogna riportare il sacramento della confessione nell’impegno personale della propria conversione che attraversi tutto l’arco della vita del cristiano. Gesù ci ha ammoniti: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,36). È inoltre necessario vivere la Penitenza nella comunità di fede dove il popolo di Dio è chiamato alla santità e in cui si esige pure una guida spirituale che può essere il proprio confessore. La norma morale del cristiano la si riscopre nella parola di Dio che fa vivo riscontro nell’intimo della nostra coscienza e che ci aiuta a entrare in piena comunione con Gesù Cristo messaggero e testimone della misericordia del Padre per tutti noi. Ci ha dettato infatti la norma morale: «Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli!» (Mt 5,45). Il peccato pertanto trova la sua definizione nel disamore che è il ripiegamento su se stessi nella propria autosufficienza nei confronti di Dio rifiutando di fare riferimento alla sua legge e di essere prossimo dei propri fratelli magari illudendosi nel contempo di avere la coscienza a posto per l’appartenenza a una religione che purtroppo non combacia più col Vangelo. La parola del Buon Samaritano ne costituisce una eloquente dimostrazione. La nostra conversione è sempre opera dello Spirito Santo, primo dono ai credenti, comunicato nella Pasqua. Con la sua forza la Chiesa rimette i peccati. (Mt 16,19; Gv 20,23). Il cristiano non deve illudersi di poter fare tutto da sè, ma deve fare ricorso ai mezzi della grazia, cioè ai sacramenti e alla preghiera e alla pratica delle buone opere. La comunità di fede poi, in vista del Giubileo del 2000, deve poter offrire ai fedeli una maggior comodità e una più aggiornata e intensa celebrazione del sacramento della Penitenza così come ha auspicato il Santo Padre nella sua «Tertio Millennio Adveniente».
dg
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NATALE 1998
Il Natale è la festa del Dio fattosi bambino per intenerire il cuore dell’uomo e per ricordarci che Egli continua a essere presente in ogni bambino che nasce e che ha fatto a sua immagine e somiglianza per cui ogni bambino è messaggero dell’amore che continua a riportare Dio sulla faccia della terra. Anche i pagani hanno raffigurato l’amore nelle spoglie di un bambino che scaglia col suo arco le frecce infuocate per trafiggere il cuore degli innamorati. Ma il bambino di Betlemme, ormai adulto da duemila anni, si è lasciato trafiggere il cuore in croce per dimostrare che è Lui l’innamorato degli uomini per i quali ha donato la sua vita sul Calvario. Quel Bambino è venuto, Dio in terra, a percorrere la strada dell’uomo per manifestarci il suo programma di salvezza che attraversa tutta la storia dell’umanità coinvolgendola nel suo disegno di amore che l’ha portato a donare la vita per liberarci dalla morte del peccato. Dio è venuto in Gesù Cristo come buon pastore in cerca della pecorella smarrita per ricondurla alla casa de Padre. Il Natale quindi è la festa della conversione all’amore di quel Dio che si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio, come afferma Giovanni nel prologo del suo Vangelo. Gesù Cristo tuttavia è venuto nel tempo come Salvatore mentre alla fine del tempo sarà il giudice, come Lui stesso ha affermato, che emanerà la sentenza di benedizione o di condanna basandosi esclusivamente sul libro della vita che ciascuno di noi avrà scritto col proprio comportamento, di cui nessuno più, neppure Dio, potrà modificare una sola parola. Ora chi vuole la salvezza la trova a portata di mano poiché il Natale significa che Dio è nato per noi nella grotta di Betlemme ma per nascere in noi nel cuore di chi ne accetta l’amore da testimoniare e da condividere nella fratellanza soprattutto coi più poveri ed emarginati affinché possiamo partecipare insieme alla grande festa del cielo preparata per tutti i figli che tornano alla casa del Padre. Ancora una volta gli angeli canteranno a Natale sul Dio incarnato come augurio per tutta l'umanità: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama!” intanto che Dio stesso attenderà la nostra risposta. Il Natale del 1998, sulla base di queste premesse, segni in ciascuno di noi quel cambiamento di vita cristiana che reca col suo luminoso messaggio.
Auguri di Buon Natale a tutti e di tutto cuore. Aff.mo don Giulio |
PROGETTO CULTURALE: 1999
Finalmente, prima di parlare di un progetto pastorale, si parla di un progetto culturale che sta alla base di qualsiasi altra progettazione pastorale, poiché presuppone il ricupero della persona, o meglio dell’uomo e del suo ambiente, per non correre il pericolo di costruire sul vuoto col risultato pratico dell’insuccesso. Il Vangelo è una realtà divina che arricchisce la realtà umana col risultato di due valori, divino e umano in simbiosi tra di loro, vale a dire: Cristo con l’uomo. Sulla base di questo progetto culturale si inserisce il programma pastorale 1999: la liturgia e in particolare la penitenza come sacramento. Se torniamo al discorso sul piano culturale unitamente al programma pastorale si può intuire che si tratta di ricuperare la capacità di sapere guardare orizzontalmente e nel contempo verticalmente ai problemi dell’uomo del nostro tempo, cioè con una mentalità scientifica illuminata dalla luce della fede. Sul piano pratico siamo subito indotti, come premessa indispensabile, a eliminare la paura degli altri per confrontarsi senza preconcetti nel dialogo, chiesa e piazza, con le persone ritenute indistintamente messaggere di verità sia sotto l’aspetto umano che cristiano. A questo punto dovrebbero cadere tutti i campanilismi e i sospetti che hanno motivato e possono tuttora motivare il fatto di rinchiudersi ciascuno nel proprio guscio, soprattutto oggi di fronte a una visione mondiale del vivere umano che ci viene offerta quotidianamente dai mezzi di comunicazione. Il problema che ci proponiamo non si risolve soltanto nel fare ma soprattutto nell’essere una presenza sensibile capace di cogliere i messaggi o i segni dei tempi che provengono dal mondo e dalla chiesa per poter progettare insieme la promozione umana e la salvezza con le persone che la provvidenza immette sul nostro cammino. Qualsiasi discriminazione è quindi contraria a questo progetto culturale per cui la destinazione ”noi e gli altri” non può più appartenere al nostro avvenire. Ogni progetto col suo programma deve pertanto disegnarsi esclusivamente nella duplice dimensione: orizzontale e verticale. Quando si incomincia a volersi bene, si incomincia anche a essere chiesa poiché è un incontro capace di suscitare la sete di Dio, di quel Dio che S. Agostino definiva ”...intimius mei...”, cioè più intimo di me stesso, anche quando io lo cerco altrove o non lo cerco affatto. Ciò si realizza col dialogo. Se nelle famiglie, ad esempio, non si cresce culturalmente e spiritualmente dipende anche dal fatto che non c’è più dialogo, a cui non si dedica neppure il tempo in cui si consumano i pasti poiché i figli si sentono impegnati a seguire la TV... L’apostolato dei Testimoni di Geova, in cui tutto piove dall’alto, è certamente stato condiviso anche da noi nel passato. Paolo VI è intervenuto con la sua prima enciclica ad affermare l’indispensabilità del dialogo anche se non è stata molto apprezzata e presto dimenticata. C’è poi un abisso spaventoso d’ignoranza in fatto di fede accompagnata da una forte presunzione di sapere tutto senza una dovuta preparazione e formazione di base. Un pizzico di dubbio è sempre un buon condimento su qualsiasi vivanda dottrinale. Anche la fretta è una cattiva compagna di viaggio. Dio sa attendere, il contadino non semina la sera per raccogliere al mattino. La gettoniera ha guastato la cultura del saper attendere. Il tempo poi non si dedica nella misura dell’importanza dei problemi da risolvere. Altro aspetto importante nei nostri impegni pastorali è di saper programmare nella misura delle nostre possibilità perché ”chi troppo vuole, nulla stringe”, “mentre la fatica assidua lunga e operosa vince ogni cosa”. ”Gutta cavat lapidem”. Osserviamo in natura la saxifraga che divora le montagne intanto che nessuno s’accorge. Il ”carpe diem” dei romani è un grande insegnamento. Chi ha tempo non aspetti tempo. Si esige pertanto un calendario con le sue scadenze improrogabili, ciò che si cerca di fare ogni anno anche da noi. “Nulla dies sine linea” - ogni giorno merita la sua parte. Una attenzione particolare si deve assegnare alla religiosità popolare. Con le devozioni la chiesa ha resistito alla modernità perché sono capaci di dare sfogo alla pietà popolare che nessuno potrà mai sradicare dal cuore dell’uomo se ve l’ha seminata Dio. Si tratta eventualmente di illuminarla. La chiesa deve celebrare per esistere. Umanamente parlando non esiste medicina o rimedio che faccia risuscitare i morti, mentre Cristo attraverso la chiesa, nel sacramento della penitenza, ci offre la medicina che fa risuscitare i morti alla vita della grazia, quando si celebra adeguatamente. Queste, e altre, sono indicazioni che sembrano sagge da tenere presenti qualora si tratta di affrontare il progetto culturale destinato a dare successo ai nostri programmi pastorali.
don Giulio
don Giulio