1996
QUARESIMA, TEMPO DI PREGHIERA,
DI PENITENZA E DI OPERE BUONE.
Tempo di preghiera
La preghiera è la capacità di parlare con Dio. Tale capacità scaturisce soprattutto dall’ascolto della parola di Dio da cui germoglia la nostra fede. La preghiera non è pertanto un dono o un omaggio che noi presentiamo a Dio ma è bensì un privilegio che Dio concede all’uomo che si pone in ascolto della sua parola. Non si può quindi disgiungere la preghiera autentica dalla catechesi perchè le mancherebbe la vita che è presente nella parola stessa di Dio. Se da una parte chi non prega non crede a niente, perchè è venuta meno in lui la fede, chi prega, d’altro canto, deve esprimere la propria dipendenza da Dio più nell’ascolto che nella domanda dal momento che la preghiera non è un soliloquio intimistico o un mezzo per cercare di piegare la volontà di Dio al proprio volere all’insegna della religione del “do ut des” come se fossimo sul mercato degli scambi o della concorrenza. Chi prega non si esprime con l’imperativo “io voglio”, ma con il condizionale “se tu vuoi”. Gesù nell’agonia dell’orto del Getsemani si è rivolto al Padre dicendo: “... non la mia ma la tua volontà”. L’unica testa che non si può cambiare è quella di Dio a differenza della nostra che deve uniformarsi alla sua volontà. La preghiera comunque, fatta anche per presentare a Dio i nostri desideri, deve sconfinare nel silenzio per ascoltare Lui che parla al nostro cuore. È sempre più importante ciò che Dio ha da dire all’uomo di ciò che l’uomo vuole dire a Dio. Nella preghiera dobbiamo cercare il regno di Dio perchè tutto il resto ci verrà dato in sovrappiù, dice il Signore (Mt 6,33 e 13,44).
Tempo di penitenza
La penitenza ha lo scopo di ottenere la conversione attraverso la espiazione delle colpe commesse. Pentirsi vuol dire cambiare vita. Ciò comporta il ricupero della padronanza di se stessi sottomettendo il corpo ai rigori della penitenza. S. Paolo affermava: “Castigo corpus meum et in servitutem redigo”, cioè: “Castigo il mio corpo per ridurlo in schiavitù”. È l’unica maniera per rendere libero lo spirito. Gesù pure diceva che non si può servire a due padroni: o si finirà per servire l’uno o per servire l’altro (Mt 6,24 e Lc 6,37). Da qui i flagelli, i cilici, i digiuni e le veglie notturne prolungate del tempo passato, cose ormai tramontate anche per i frati e per le monache. Oggi è meglio concentrare la penitenza sulla lingua! Il proverbio dice: “Ne uccide di più la lingua che la spada”. Con la spada infatti si può uccidere una sola volta una persona fisicamente, mentre con la lingua si può uccidere più volte la stessa persona. Giustamente Gesù afferma: “Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla sua bocca contamina l’uomo” (Mt 15,10 e ss.). Anche il proverbio latino afferma: “Ex abundantia cordis os loquitur”: la bocca, cioè la lingua, sforma ciò che ribolle nel cuore dell’uomo. E da noi si afferma ancora: “Un bel tacer non fu mai scritto”. Se controllassimo la lingua non dovremmo lamentare e accusare tante discordie, odii, rancori, vendette, diffamazioni, calunnie, ingiustizie e immoralità che pesano assai sulla nostra società a danno di tutti. La lingua che infanga la gente e insulta Dio, è infernale. È la lingua di cui si serve satana per sfogare il suo odio contro Dio e per dannare l’uomo. Chi ha venduto la propria lingua al diavolo, non può poi servirsene per pregare Dio. Il proverbio bergamasco, tradotto con tutto il rispetto delle persone, afferma: “C’è chi mangia Cristo per vomitare satana”!
Tempo di opere buone
L’elemosina, afferma ripetutamente la S. Scrittura, copre la moltitudine dei nostri peccati (Pt 4,8). Non si tratta tuttavia dell’elemosina che mortifica anche l’accattone e non serve che a toglierci dai piedi le persone bisognose. Anche nei confronti di Dio questa elemosina è offensiva come fu l’offerta di Caino. Dio infatti non ha bisogno delle nostre offerte perchè tutto ciò che abbiamo è suo mentre noi dovremmo esprimergli la nostra riconoscenza offrendogli almeno le primizie così come si era già stabilito nella legge di Mosè. Dio poi la sua provvidenza l’ha affidata alla nostra generosità nell’elargire ai poveri ciò che serve a condividere le loro necessità. Alla fine del mondo quando Gesù scenderà dal cielo sulle nubi per giudicare i buoni e i cattivi, dirà: “Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, pellegrino, malato, carcerato ... e mi avete o non mi avete soccorso”. (Mt 25,35).
Il perdono. I debiti che abbiamo con Dio dobbiamo saldarli coi fratelli. Intanto che si continua a pregare il Padre” ... perdona a noi i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori”, non soltanto ci vendichiamo delle offese ricevute, ma neppure sappiamo chiedere perdono delle offese che noi abbiamo arrecato ai fratelli. Frequentemente, anzi, accusiamo volentieri le colpe degli altri per coprire vergognosamente le nostre magagne. Il cristiano è colui che sull’esempio di Cristo, che si è addossato le nostre colpe, sa prendersi il torto anche quando ritiene di avere ragione. Abbiamo tutto da guadagnare a concedere il perdono per la nostra e per l’altrui pace. Dobbiamo volere la pace degli altri se vogliamo poi ottenere la pace anche per noi. Così ci insegna Giovanni Paolo II. Nella preghiera, nella penitenza, nella elemosina e nel perdono sono racchiuse tutte le opere di misericordia corporali e spirituali che soprattutto nel tempo di Quaresima dobbiamo esercitare.
d. Giulio
La preghiera è la capacità di parlare con Dio. Tale capacità scaturisce soprattutto dall’ascolto della parola di Dio da cui germoglia la nostra fede. La preghiera non è pertanto un dono o un omaggio che noi presentiamo a Dio ma è bensì un privilegio che Dio concede all’uomo che si pone in ascolto della sua parola. Non si può quindi disgiungere la preghiera autentica dalla catechesi perchè le mancherebbe la vita che è presente nella parola stessa di Dio. Se da una parte chi non prega non crede a niente, perchè è venuta meno in lui la fede, chi prega, d’altro canto, deve esprimere la propria dipendenza da Dio più nell’ascolto che nella domanda dal momento che la preghiera non è un soliloquio intimistico o un mezzo per cercare di piegare la volontà di Dio al proprio volere all’insegna della religione del “do ut des” come se fossimo sul mercato degli scambi o della concorrenza. Chi prega non si esprime con l’imperativo “io voglio”, ma con il condizionale “se tu vuoi”. Gesù nell’agonia dell’orto del Getsemani si è rivolto al Padre dicendo: “... non la mia ma la tua volontà”. L’unica testa che non si può cambiare è quella di Dio a differenza della nostra che deve uniformarsi alla sua volontà. La preghiera comunque, fatta anche per presentare a Dio i nostri desideri, deve sconfinare nel silenzio per ascoltare Lui che parla al nostro cuore. È sempre più importante ciò che Dio ha da dire all’uomo di ciò che l’uomo vuole dire a Dio. Nella preghiera dobbiamo cercare il regno di Dio perchè tutto il resto ci verrà dato in sovrappiù, dice il Signore (Mt 6,33 e 13,44).
Tempo di penitenza
La penitenza ha lo scopo di ottenere la conversione attraverso la espiazione delle colpe commesse. Pentirsi vuol dire cambiare vita. Ciò comporta il ricupero della padronanza di se stessi sottomettendo il corpo ai rigori della penitenza. S. Paolo affermava: “Castigo corpus meum et in servitutem redigo”, cioè: “Castigo il mio corpo per ridurlo in schiavitù”. È l’unica maniera per rendere libero lo spirito. Gesù pure diceva che non si può servire a due padroni: o si finirà per servire l’uno o per servire l’altro (Mt 6,24 e Lc 6,37). Da qui i flagelli, i cilici, i digiuni e le veglie notturne prolungate del tempo passato, cose ormai tramontate anche per i frati e per le monache. Oggi è meglio concentrare la penitenza sulla lingua! Il proverbio dice: “Ne uccide di più la lingua che la spada”. Con la spada infatti si può uccidere una sola volta una persona fisicamente, mentre con la lingua si può uccidere più volte la stessa persona. Giustamente Gesù afferma: “Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla sua bocca contamina l’uomo” (Mt 15,10 e ss.). Anche il proverbio latino afferma: “Ex abundantia cordis os loquitur”: la bocca, cioè la lingua, sforma ciò che ribolle nel cuore dell’uomo. E da noi si afferma ancora: “Un bel tacer non fu mai scritto”. Se controllassimo la lingua non dovremmo lamentare e accusare tante discordie, odii, rancori, vendette, diffamazioni, calunnie, ingiustizie e immoralità che pesano assai sulla nostra società a danno di tutti. La lingua che infanga la gente e insulta Dio, è infernale. È la lingua di cui si serve satana per sfogare il suo odio contro Dio e per dannare l’uomo. Chi ha venduto la propria lingua al diavolo, non può poi servirsene per pregare Dio. Il proverbio bergamasco, tradotto con tutto il rispetto delle persone, afferma: “C’è chi mangia Cristo per vomitare satana”!
Tempo di opere buone
L’elemosina, afferma ripetutamente la S. Scrittura, copre la moltitudine dei nostri peccati (Pt 4,8). Non si tratta tuttavia dell’elemosina che mortifica anche l’accattone e non serve che a toglierci dai piedi le persone bisognose. Anche nei confronti di Dio questa elemosina è offensiva come fu l’offerta di Caino. Dio infatti non ha bisogno delle nostre offerte perchè tutto ciò che abbiamo è suo mentre noi dovremmo esprimergli la nostra riconoscenza offrendogli almeno le primizie così come si era già stabilito nella legge di Mosè. Dio poi la sua provvidenza l’ha affidata alla nostra generosità nell’elargire ai poveri ciò che serve a condividere le loro necessità. Alla fine del mondo quando Gesù scenderà dal cielo sulle nubi per giudicare i buoni e i cattivi, dirà: “Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, pellegrino, malato, carcerato ... e mi avete o non mi avete soccorso”. (Mt 25,35).
Il perdono. I debiti che abbiamo con Dio dobbiamo saldarli coi fratelli. Intanto che si continua a pregare il Padre” ... perdona a noi i nostri debiti come noi li perdoniamo ai nostri debitori”, non soltanto ci vendichiamo delle offese ricevute, ma neppure sappiamo chiedere perdono delle offese che noi abbiamo arrecato ai fratelli. Frequentemente, anzi, accusiamo volentieri le colpe degli altri per coprire vergognosamente le nostre magagne. Il cristiano è colui che sull’esempio di Cristo, che si è addossato le nostre colpe, sa prendersi il torto anche quando ritiene di avere ragione. Abbiamo tutto da guadagnare a concedere il perdono per la nostra e per l’altrui pace. Dobbiamo volere la pace degli altri se vogliamo poi ottenere la pace anche per noi. Così ci insegna Giovanni Paolo II. Nella preghiera, nella penitenza, nella elemosina e nel perdono sono racchiuse tutte le opere di misericordia corporali e spirituali che soprattutto nel tempo di Quaresima dobbiamo esercitare.
d. Giulio
MINICONVEGNO DEL 17 MARZO 1996.
Nella scia del Convegno di Palermo la nostra diocesi promuove dei miniconvegni intervicariali per ripensare e valorizzare il frutto del convenire delle Chiese d’Italia e per poter riprendere con rinnovato slancio l’impegno del programma pastorale che ogni parrocchia deve darsi in vista anche dell’imminenza del duemila.
I Vicariati delle valli Brembana e Imagna celebreranno il loro miniconvegno a Villa d’Almè nel Cinema Teatro Serassi Domenica 17 Marzo dalle ore 14,30 alle 19,00 alla presenza del nostro Vescovo Mons. Roberto Amadei.
I temi che verranno trattati sono già stati proposti e trattati al Convegno di Palermo come “Le vie preferenziali” su cui costruire “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”. Sono cinque:
- La cultura e la comunicazione sociale
- L’impegno sociale e politico
- L’amore preferenziale per i poveri
- La famiglia
- I giovani.
A noi, del Vicariato Brembilla-Zogno, è stato assegnato il terzo tema: “L’amore preferenziale per i poveri” che deve svilupparsi sinteticamente sulle seguenti domande:
1 - Qual’è la situazione nella parrocchia in ordine
all’ambito in questione?
2 - Quali esigenze pastorali emergono dalla lettura
fatta?
3 - Quali proposte da suggerire?
Premetto una proposta di riflessione esaminata in occasione del C.P.P. tenutosi il 19 gennaio scorso.
Il povero è visto nella nostra comunità soprattutto come colui che abbisogna di cose sul piano materiale ed è costretto a ricorrere alla beneficienza o a chiedere l’elemosina. Non viene considerato in merito alle cause della sua povertà da rimuovere. Sopravvive nei suoi confronti una disponibilità legata al dovere dell’elemosina, ciò che è mortificante, come nella Conferenza di S. Vincenzo, senza dimenticare l’iniziativa privata per cui si crea a queste condizioni il benefattore e il beneficato, mentre dovrebbe ritenersi più beneficato colui che dona rispetto a colui che riceve. Il povero si annida anche nelle case di abbienti dove, più dell’anziano e dell’infermo, conta il lavoro e il guadagno. Non esiste tuttora una valida organizzazione impegnata a risolvere meglio i problemi casa-lavoro-scuola-salute-ricovero-promozione umana. Le nuove povertà (droga-Aids-prostituzione-delinquenza minorile-immigrati, ecc.) trovano poca attenzione e sono frequentemente sotto il tiro di accuse e di condanne che non servono certamente a risolverne i problemi, anzi li peggiorano poiché sono interventi negativi. Non si pensa ancora che per risolvere e capire meglio il problema poveri bisogna farsi povero come Cristo tra i poveri, ciò che è indispensabile anche per appartenere autenticamente alla vera Chiesa di Cristo. Nella scelta della povertà, soprattutto come virtù, si acquista la capacità di riconoscere Cristo nei poveri. Ricordiamo la parabola evangelica del povero Lazzaro e del ricco Epulone. Là povertà ci fa ancora tanta paura e il mondo dei poveri non si considera certamente come la grande ricchezza della Chiesa. Nella Liturgia che' si celebra ogni giorno non manca mai il ricordo dei poveri morti ma scarseggia il ricordo dei poveri vivi. Non manca neppure la gettoniera del S.mo Sacramento, ma manca a volte il tempo di soffermarsi accanto all’anziano o all’infermo per condividere i suoi sfoghi e per sentirsi Cristo in salute accanto al Cristo infermo. D’estate soprattutto gli infermi e gli anziani, mentre i familiari se ne vanno in vacanza al mare e ai monti, o vengono affidati a qualche istituto o vengono addirittura abbandonati come i gatti e i cani, non di lusso perchè questi vengono portati appresso. Nella predicazione le Beatitudini vanno sempre a meraviglia perchè rimandano la soluzione dei problemi umani del tempo alla vita eterna. Si affatica a credere che il disegno di Dio per la nostra salvezza si annida tra le pieghe della storia umana, là dove Dio sa cavare il bene anche dal male, per cui l’attenzione ai peccatori, che sono più poveri di tutti i poveri, di cui ciascuno di noi pure fa parte, non viene rivolta sempre in chiave di fede e di speranza e soprattutto di carità. Non esiste ancora la Caritas parrocchiale capace d’investire tutta una comunità perchè, evitando le deleghe, ciascuno si faccia carico dei problemi umani che riscontra nel proprio ambiente senza richiedere interventi dall’alto che se arrivano, come l’aiuto di Pisa, è sempre molto tardi. Abbiamo abbondanti risorse da sfruttare, come i pensionati ancora giovani che ronzano attorno sfaccendati, gli obiettori di coscienza che fanno la scelta del volontariato non per sfuggire all’incomodo del servizio militare, le persone di tutte le età che sprecano il loro tempo libero nelle bettole. Non si riesce a coinvolgere nel volontariato tanta grazia di Dio. Gli enti pubblici esistono appena nell’orario d’ufficio mentre la povertà e l’urgenza di aiuti e di soccorsi va ben oltre per cui rimangono sempre dei vuoti da riempire. Non manca tuttavia la collaborazione della comunità parrocchiale e la disponibilità anche per un’eventuale supplenza. Tra le proposte capaci di dare vigore all’amore preferenziale per i poveri: la parrocchia conosca i suoi poveri; educhi alla solidarietà; sia solidale coi suoi poveri; non si stanchi di offrire la propria collaborazione con le istituzioni civili interessate al problema; trovi il coraggio anche di rischiare piuttosto che ignorare o abbandonare i poveri nei casi difficili. Ciascun cristiano si impegni a farsi prossimo almeno di un povero da immettere cordialmente nella propria vita, non soltanto sporadicamente.
don Giulio
I Vicariati delle valli Brembana e Imagna celebreranno il loro miniconvegno a Villa d’Almè nel Cinema Teatro Serassi Domenica 17 Marzo dalle ore 14,30 alle 19,00 alla presenza del nostro Vescovo Mons. Roberto Amadei.
I temi che verranno trattati sono già stati proposti e trattati al Convegno di Palermo come “Le vie preferenziali” su cui costruire “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”. Sono cinque:
- La cultura e la comunicazione sociale
- L’impegno sociale e politico
- L’amore preferenziale per i poveri
- La famiglia
- I giovani.
A noi, del Vicariato Brembilla-Zogno, è stato assegnato il terzo tema: “L’amore preferenziale per i poveri” che deve svilupparsi sinteticamente sulle seguenti domande:
1 - Qual’è la situazione nella parrocchia in ordine
all’ambito in questione?
2 - Quali esigenze pastorali emergono dalla lettura
fatta?
3 - Quali proposte da suggerire?
Premetto una proposta di riflessione esaminata in occasione del C.P.P. tenutosi il 19 gennaio scorso.
Il povero è visto nella nostra comunità soprattutto come colui che abbisogna di cose sul piano materiale ed è costretto a ricorrere alla beneficienza o a chiedere l’elemosina. Non viene considerato in merito alle cause della sua povertà da rimuovere. Sopravvive nei suoi confronti una disponibilità legata al dovere dell’elemosina, ciò che è mortificante, come nella Conferenza di S. Vincenzo, senza dimenticare l’iniziativa privata per cui si crea a queste condizioni il benefattore e il beneficato, mentre dovrebbe ritenersi più beneficato colui che dona rispetto a colui che riceve. Il povero si annida anche nelle case di abbienti dove, più dell’anziano e dell’infermo, conta il lavoro e il guadagno. Non esiste tuttora una valida organizzazione impegnata a risolvere meglio i problemi casa-lavoro-scuola-salute-ricovero-promozione umana. Le nuove povertà (droga-Aids-prostituzione-delinquenza minorile-immigrati, ecc.) trovano poca attenzione e sono frequentemente sotto il tiro di accuse e di condanne che non servono certamente a risolverne i problemi, anzi li peggiorano poiché sono interventi negativi. Non si pensa ancora che per risolvere e capire meglio il problema poveri bisogna farsi povero come Cristo tra i poveri, ciò che è indispensabile anche per appartenere autenticamente alla vera Chiesa di Cristo. Nella scelta della povertà, soprattutto come virtù, si acquista la capacità di riconoscere Cristo nei poveri. Ricordiamo la parabola evangelica del povero Lazzaro e del ricco Epulone. Là povertà ci fa ancora tanta paura e il mondo dei poveri non si considera certamente come la grande ricchezza della Chiesa. Nella Liturgia che' si celebra ogni giorno non manca mai il ricordo dei poveri morti ma scarseggia il ricordo dei poveri vivi. Non manca neppure la gettoniera del S.mo Sacramento, ma manca a volte il tempo di soffermarsi accanto all’anziano o all’infermo per condividere i suoi sfoghi e per sentirsi Cristo in salute accanto al Cristo infermo. D’estate soprattutto gli infermi e gli anziani, mentre i familiari se ne vanno in vacanza al mare e ai monti, o vengono affidati a qualche istituto o vengono addirittura abbandonati come i gatti e i cani, non di lusso perchè questi vengono portati appresso. Nella predicazione le Beatitudini vanno sempre a meraviglia perchè rimandano la soluzione dei problemi umani del tempo alla vita eterna. Si affatica a credere che il disegno di Dio per la nostra salvezza si annida tra le pieghe della storia umana, là dove Dio sa cavare il bene anche dal male, per cui l’attenzione ai peccatori, che sono più poveri di tutti i poveri, di cui ciascuno di noi pure fa parte, non viene rivolta sempre in chiave di fede e di speranza e soprattutto di carità. Non esiste ancora la Caritas parrocchiale capace d’investire tutta una comunità perchè, evitando le deleghe, ciascuno si faccia carico dei problemi umani che riscontra nel proprio ambiente senza richiedere interventi dall’alto che se arrivano, come l’aiuto di Pisa, è sempre molto tardi. Abbiamo abbondanti risorse da sfruttare, come i pensionati ancora giovani che ronzano attorno sfaccendati, gli obiettori di coscienza che fanno la scelta del volontariato non per sfuggire all’incomodo del servizio militare, le persone di tutte le età che sprecano il loro tempo libero nelle bettole. Non si riesce a coinvolgere nel volontariato tanta grazia di Dio. Gli enti pubblici esistono appena nell’orario d’ufficio mentre la povertà e l’urgenza di aiuti e di soccorsi va ben oltre per cui rimangono sempre dei vuoti da riempire. Non manca tuttavia la collaborazione della comunità parrocchiale e la disponibilità anche per un’eventuale supplenza. Tra le proposte capaci di dare vigore all’amore preferenziale per i poveri: la parrocchia conosca i suoi poveri; educhi alla solidarietà; sia solidale coi suoi poveri; non si stanchi di offrire la propria collaborazione con le istituzioni civili interessate al problema; trovi il coraggio anche di rischiare piuttosto che ignorare o abbandonare i poveri nei casi difficili. Ciascun cristiano si impegni a farsi prossimo almeno di un povero da immettere cordialmente nella propria vita, non soltanto sporadicamente.
don Giulio
PASQUA 1996
Pasqua significa passaggio, per il popolo d’Israele, dalla terra di schiavitù d’Egitto alla terra promessa. Quel passaggio è stato celebrato con la cena dell’agnello, figura di Gesù Cristo vero Agnello pasquale, consumato nell'imminenza della liberazione avvenuta in quella medesima notte in cui l’angelo sterminatore è passato a uccidere tutti i primogeniti d’Egitto, a partire dal figlio del Faraone. Pasqua, nella storia della salvezza, in parallelo con la Pasqua ebraica, significa il passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio operato da Gesù Cristo mediante la sua passione e morte di croce e la sua risurrezione. Cristo stesso si è offerto come Agnello che toglie i peccati del mondo nella grande cena eucaristica con cui ha celebrato il suo passaggio dalla vita terrena alla gloria della risurrezione in quella stessa notte del tradimento affidando ai suoi discepoli il comando di ripetere quella cena in sua memoria. Pasqua per noi quindi è Cristo che in croce sul Calvario ha crocifisso tutta la nostra umanità con le sue miserie, coi suoi peccati, con le sue vergogne, le sue sconfitte, facendo poi esplodere dal suo sepolcro nella risurrezione la misericordia salvatrice per tutti i peccatori. Sulla nostra valle di lacrime ha fatto brillare il sole del suo amore. Dalla grande sconfitta della croce è scaturita la vittoria più clamorosa della storia, perché senza fare vittime ha riportato in vita tutti i morti. Mentre noi forniamo pascolo alla morte. Cristo fornisce vita ai morti, per cui Pasqua significa per noi tornare a vivere dopo la morte del peccato attraverso la riconciliazione e il perdono. Gesù disse: «In verità vi dico: chi pecca è schiavo del peccato» (Gv 8, 34). È la schiavitù più terribile, quella del peccato, perché è la schiavitù di se stessi paragonabile al suicidio. La Pasqua comporta quindi la nostra conversione, cioè il passaggio dalla morte alla vita, sotto la guida della Parola di Dio che è Verità. Nel Vangelo, Gesù disse infatti a quelli che avevano creduto in lui: «Se rimanete ben radicati nella mia parola, siete veramente mici discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31). Nella Costituzione conciliare Dei Verhum si afferma: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini in Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo, hanno accesso al Padre e sono partecipi della natura divina. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé». L’opera della salvezza è sempre in atto nella comunità dei credenti grazie al mistero pasquale di Cristo operante nella storia. Dio continua a parlarci attualmente e ciò avviene attraverso la proclamazione della sua Parola e nella celebrazione dei sacramenti che ci rendono partecipi della natura divina in quanto in essi Cristo è presente con la sua salvezza. Tutte le volte che l'umanità si allontana dalla Parola di Dio, si allontana dalla salvezza e cade nell’anoressia spirituale, condannandosi alla morte. Come potrà poi un cadavere testimoniare ai fratelli l’amore di Dio e prima ancora celebrare nella propria vita la presenza di Cristo Salvatore? Con la conversione Dio torna a essere l’ospite d’onore in casa nostra dove, con la nostra collaborazione, realizza il disegno del suo amore: esser tutto in tutti in maniera da formare un’unica realtà, Dio con noi.
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San Paolo, dopo aver estromesso l’uomo vecchio da casa sua, ha potuto esclamare ad esempio per tutti: «Il mio vivere è Cristo» (Fil 1,21); «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20): ciò che dovrebbe poter affermare ciascun cristiano impegnato a vivere in sé e a testimoniare la vera Pasqua di Nostro Signore. Con questa semplice e breve riflessione, auguro di tutto cuore «Buona Pasqua» a tutta la popolazione zognese, invitando tutti alle solenni celebrazioni pasquali.
don Giulio |
L’AMORE PREFERENZIALE
PER I POVERI
Documento del vicariato presentato al miniconvegno di Villa d’Almè il 17 marzo 1996
È la terza via preferenziale delle cinque vie proposte e trattate nel Convegno di Palermo dal 20 al 25 novembre 1995 e che ora vengono riprese a livello diocesano nei miniconvegni intervicariali per ripensare e valorizzare il frutto del convenire delle Chiese d’Italia in vista di poter riprendere con maggior impegno il programma pastorale che ogni parrocchia deve darsi anche in vista dell’imminenza del Duemila. Dobbiamo pure tener presente che l’Onu ha dichiarato l’anno 1996 «Anno internazionale per lo sradicamento della povertà». Si aiferma qui a parole ciò che non potrà realizzarsi neppure prima della fine del mondo, trattandosi di un problema paradossalmente insuperabile anche se rimane nella responsabilità di tutti di doverlo alleviare. Storicamente parlando nelle nostre comunità parrocchiali, questo problema è sempre stato presente e vissuto con grande impegno alla luce del messaggio del Vangelo (Mt 25, 31 ss.). Chi non ricorda ancora oggi l'istituzione della Mia o Misericordia, divenuta in seguito ECA, attualmente da una quindicina d’anni incorporata nell’amministrazione dei Comuni? Esistevano pure a parte dei legati fondati appositamente per soccorrere i poveri, come i legati del sale e del pane. Sopravvive tuttora la San Vincenzo che continua la sua opera di assistenza ai poveri e agli infermi. La parrocchia è sempre stata e continua ad essere un punto preciso di riferimento per qualsiasi necessità in favore dei poveri. Attualmente, da una prima analisi, risulta che nel vicariato il fenomeno della povertà rispetto ai mezzi materiali è estremamente limitato, fatta eccezione degli immigrati che si improvvisano nei nostri paesi. Le altre povertà maggiormente riscontrate sono:
• poca attenzione agli anziani, ammalati, handicappati, persone sole;
• poca attenzione alla famiglia che, anche per il suo carattere chiuso, manca di sostegno e si trova a risolvere per conto suo problemi di convivenza, divorzi, separazioni con figli sballottati a destra e a sinistra;
• atteggiamento piuttosto ostile o comunque di indifferenza verso le nuove povertà: aids, droga, prostituzione, delinquenza giovanile;
• carenza d’istruzione e di formazione umana a livello scolastico e mancanza d’impegno religioso che si traduce in povertà di fede;
• disaffezione alla Chiesa già presente nei bambini e di grandi proporzioni tra gli adolescenti e i giovani;
• mancanza di collegamento col prete che è tenuto all’oscuro dei casi di povertà della sua parrocchia;
• a volte si è più invogliati a considerare le necessità dei lontani, mentre si ignorano quelle dei vicini, o ci si preoccupa più del fare che dell’essere;
• si è fatto pure notare come povertà la mancanza della residenza del sacerdote in alcune parrocchie piccole di montagna e da ultimo la nostra incapacità ad incontrarci e a confrontarci sui vari problemi.
Si avverte comunque la necessità di un aggiornamento per una pastorale più adeguata ai tempi e coraggiosamente più aperta alle nuove povertà che insorgono dovunque anche nei nostri paesi. L’assistenza pubblica accusa i suoi limiti, anche se è nel diritto di ciascun cittadino, per cui la parrocchia non potrà mai estraniarsi dal mondo dei poveri ed è tempo che si renda capace di dare una risposta di piena accoglienza al Vangelo della carità. La disaffezione delle nuove generazioni alla Chiesa ci interroga. Non possiamo ritardare una risposta. Si esige pertanto una radicale conversione e una ininterrotta formazione per gli operatori perché siano in grado di motivare umanamente e cristianamente la loro opera, anche per poter affrontare insieme un’analisi approfondita in merito alle vecchie e alle nuove
povertà. Formarsi significa comunque convertirsi a Cristo presente nei poveri per acquistare la capacità di farsi prossimo di qualsiasi malcapitato che Dio pone sulla strada della nostra vita, come il buon Samaritano sulla via di Gerusalemme a Gerico (Lc 11, 30). La Chiesa ha bisogno di sentirsi in comunione con i poveri per dare a Cristo Capo la possibilità di essere in piena comunione con le membra del suo mistico Corpo. La stessa liturgia quando venisse privata della presenza dei poveri diverrebbe una contraddizione perché ridotta a celebrare il Capo senza le sue membra. A riguardo delle nuove povertà non si risolve il problema con accuse, condanne o rifiuti. La carità non giudica ma condivide pur non trascurando le cause di così deleteri effetti. Se Cristo si è fatto povero tra i poveri, non l’ha fatto certamente per instaurare il pauperismo, ma per insegnarci che la povertà non costituisce una disgrazia, ma un modo privilegiato di appartenere al Regno di Dio: «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). Il mondo dei poveri è l’ambiente più predisposto ad accogliere il messaggio del Regno. Ma per evangelizzare i poveri è indispensabile conoscerli e condividerli per cui dobbiamo sentirci nell’ambito della Chiesa come inviati da Cristo ai poveri. Un giovane scomparso recentemente, vittima del terribile male dell’aids, ha lasciato scritto nel suo diario: «Non credete a coloro che vi dicono che io non ho amato e non ho pianto nella mia vita. Dio solo sa quanto ho amato, ho pianto, ho sofferto». Nel suo cuore è stata seminata la speranza con la Parola di Dio e nella sua malattia terminale, completamente paralizzato, non ha fatto altro che spendere il suo ultimo filo di voce per chiedere: «Mettetemi Gesù in bocca». È indispensabile raggiungere urgentemente le persone colpite soprattutto dalle nuove povertà, senza trascurare le altre, col messaggio del Vangelo della carità per evitarne l’emarginazione e il rifiuto sociale. Non possiamo attendere che i poveri vengano a noi, ma noi dobbiamo andare a loro per coinvolgerli nel cammino di conversione come porzione privilegiata da Cristo e dalla Chiesa. Il dono più grande di cui abbisognano i poveri, è Cristo! Si è infatti gratuitamente offerto come dono nella sua Parola e nell’eucaristia privilegiando i poveri pur senza rinunciare a offrire la salvezza anche ai ricchi, come a Matteo e a Zaccheo. Apprezziamo e facciamo apprezzare la povertà perché in essa c’è spazio per l’annuncio del Regno. La spiritualità comporta un costante riferimento a Cristo in cui l’uomo si rende disponibile all’opera dello Spirito Santo. Sono i poveri che costituiscono la miglior risorsa spirituale per le nostre comunità parrocchiali se nelle pieghe della loro dolorosa esperienza opera incessantemente l’amore di Cristo che continua a redimere e a salvare il mondo. I poveri non hanno ancora trovato lo spazio che spetta loro di diritto sia nella programmazione nella pastorale, sia nell’ambito della liturgia, sia nella gestione economica e sia nei rapporti con le pubbliche istituzioni. Ogni giorno siamo costretti a subire l’esperienza che chi ha il potere tende a prevaricare dandosi ragione contro i poveri. Anche la Chiesa ha fatto e rischia di fare tuttora questo affronto ai poveri se continua a navigare nella mentalità di scelte consumistiche e a ritenere più importanti i templi manufatti dei templi creati da Dio a sua immagine e somiglianza per inabitarvi. Bisogna anche riconoscere che alle nostre comunità parrocchiali è mancata sinora la proposta di un’autentica teologia sui poveri, sull’uso del potere e del denaro. Si sente infatti il bisogno di una sintesi dottrinale capace di imporsi come progetto interpretativo dell’opzione o dell’amore preferenziale per i poveri. Se è vero che Cristo si fa rappresentare prima dagli ultimi che dalla gerarchia, è spiegabile che insorga dalla base una richiesta di chiarificazione sull’amore preferenziale per i poveri che rimangano comunque nell’attesa. Nella Chiesa, e quindi in noi cristiani, non si è ancora affermata con sufficiente efficacia la virtù della povertà che non vuole essere scelta di indigenza, ma di uno stile più conforme al Vangelo di vita per aderire pienamente all’annuncio del Regno prima di poterlo proporre agli altri. Da tutto ciò si accusa ancora una volta la mancanza della teologia della carità che si sposa con la teologia della povertà, cioè del pieno rispetto o meglio riconoscimento della dignità della persona a cui Dio si è donato e per cui non è possibile amare l’uno senza amare l’altro. Quando si guarda al povero si guarda a Cristo che nel povero vuole essere riconosciuto, servito e amato. Si è pensato anche di proporre di offrire ai poveri i tesori della Chiesa, ma se da una parte ciò potrebbe costituire una testimonianza di amore, dall’altra parte costituirebbe pure un’accusa per coloro che non hanno ancora capito che il problema poveri non si risolve con una elargizione, una tantum, ma con il coinvolgimento di tutti i cristiani che devono singolarmente e comunitariamente farsi carico del problema che continuerà a esistere. Gesù infatti, a Giuda scandalizzato che la Maddalena sciupasse un profumo prezioso per ungere il Maestro, profumo che si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri, disse: «...i poveri li avrete sempre con voi» (Mt 26, 6-7; Mc 14, 3; Gv 12, 7). La Chiesa sappia quindi che i suoi veri tesori sono i poveri di cui dovrà sempre prendersi cura sia per aiutarli primum vivere e sia per evangelizzarli: «...Querite primum regnum Dei» (cercate innanzitutto il regno di Dio, perché il resto vi verrà dato in aggiunta): Mt 6, 33 e 13, 44. Dopo la precedente riflessione sono seguite delle proposte concrete:
• creare la Commissione Caritas con lo scopo di coordinare le varie iniziative presenti nelle parrocchie con compiti di formazione, sensibilizzazione e di aiuto, tenendo sotto controllo le realtà a rischio per intervenire tempestivamente;
• formare il gruppo volontariato di cui poter disporre come persone qualificate sotto ogni aspetto in ogni caso di necessità;
• favorire momenti di riflessione su questi temi nei tempi forti dell’anno (Avvento e Quaresima) e nella celebrazione di feste particolarmente sentite dalla popolazione;
• favorire l’istruzione religiosa da cui dovrebbero scaturire sentimenti di accoglienza e di comunione;
• studiare e preparare cammini di conversione e di penitenza con preghiere e digiuni cercando di coinvolgere soprattutto i giovani;
• sensibilizzare i pensionati perché abbiano a impiegare il loro tempo libero nella testimonianza del Vangelo della carità;
• creare la giornata della povertà parrocchiale, vicariale, diocesana, organizzandola convenientemente;
• inserire il problema dell’amore preferenziale per i poveri nel piano pastorale;
• utilizzare tutti i mezzi di comunicazione per trasmettere e ricevere tutto quanto gravita intorno all’universo povertà.
dg
• poca attenzione agli anziani, ammalati, handicappati, persone sole;
• poca attenzione alla famiglia che, anche per il suo carattere chiuso, manca di sostegno e si trova a risolvere per conto suo problemi di convivenza, divorzi, separazioni con figli sballottati a destra e a sinistra;
• atteggiamento piuttosto ostile o comunque di indifferenza verso le nuove povertà: aids, droga, prostituzione, delinquenza giovanile;
• carenza d’istruzione e di formazione umana a livello scolastico e mancanza d’impegno religioso che si traduce in povertà di fede;
• disaffezione alla Chiesa già presente nei bambini e di grandi proporzioni tra gli adolescenti e i giovani;
• mancanza di collegamento col prete che è tenuto all’oscuro dei casi di povertà della sua parrocchia;
• a volte si è più invogliati a considerare le necessità dei lontani, mentre si ignorano quelle dei vicini, o ci si preoccupa più del fare che dell’essere;
• si è fatto pure notare come povertà la mancanza della residenza del sacerdote in alcune parrocchie piccole di montagna e da ultimo la nostra incapacità ad incontrarci e a confrontarci sui vari problemi.
Si avverte comunque la necessità di un aggiornamento per una pastorale più adeguata ai tempi e coraggiosamente più aperta alle nuove povertà che insorgono dovunque anche nei nostri paesi. L’assistenza pubblica accusa i suoi limiti, anche se è nel diritto di ciascun cittadino, per cui la parrocchia non potrà mai estraniarsi dal mondo dei poveri ed è tempo che si renda capace di dare una risposta di piena accoglienza al Vangelo della carità. La disaffezione delle nuove generazioni alla Chiesa ci interroga. Non possiamo ritardare una risposta. Si esige pertanto una radicale conversione e una ininterrotta formazione per gli operatori perché siano in grado di motivare umanamente e cristianamente la loro opera, anche per poter affrontare insieme un’analisi approfondita in merito alle vecchie e alle nuove
povertà. Formarsi significa comunque convertirsi a Cristo presente nei poveri per acquistare la capacità di farsi prossimo di qualsiasi malcapitato che Dio pone sulla strada della nostra vita, come il buon Samaritano sulla via di Gerusalemme a Gerico (Lc 11, 30). La Chiesa ha bisogno di sentirsi in comunione con i poveri per dare a Cristo Capo la possibilità di essere in piena comunione con le membra del suo mistico Corpo. La stessa liturgia quando venisse privata della presenza dei poveri diverrebbe una contraddizione perché ridotta a celebrare il Capo senza le sue membra. A riguardo delle nuove povertà non si risolve il problema con accuse, condanne o rifiuti. La carità non giudica ma condivide pur non trascurando le cause di così deleteri effetti. Se Cristo si è fatto povero tra i poveri, non l’ha fatto certamente per instaurare il pauperismo, ma per insegnarci che la povertà non costituisce una disgrazia, ma un modo privilegiato di appartenere al Regno di Dio: «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). Il mondo dei poveri è l’ambiente più predisposto ad accogliere il messaggio del Regno. Ma per evangelizzare i poveri è indispensabile conoscerli e condividerli per cui dobbiamo sentirci nell’ambito della Chiesa come inviati da Cristo ai poveri. Un giovane scomparso recentemente, vittima del terribile male dell’aids, ha lasciato scritto nel suo diario: «Non credete a coloro che vi dicono che io non ho amato e non ho pianto nella mia vita. Dio solo sa quanto ho amato, ho pianto, ho sofferto». Nel suo cuore è stata seminata la speranza con la Parola di Dio e nella sua malattia terminale, completamente paralizzato, non ha fatto altro che spendere il suo ultimo filo di voce per chiedere: «Mettetemi Gesù in bocca». È indispensabile raggiungere urgentemente le persone colpite soprattutto dalle nuove povertà, senza trascurare le altre, col messaggio del Vangelo della carità per evitarne l’emarginazione e il rifiuto sociale. Non possiamo attendere che i poveri vengano a noi, ma noi dobbiamo andare a loro per coinvolgerli nel cammino di conversione come porzione privilegiata da Cristo e dalla Chiesa. Il dono più grande di cui abbisognano i poveri, è Cristo! Si è infatti gratuitamente offerto come dono nella sua Parola e nell’eucaristia privilegiando i poveri pur senza rinunciare a offrire la salvezza anche ai ricchi, come a Matteo e a Zaccheo. Apprezziamo e facciamo apprezzare la povertà perché in essa c’è spazio per l’annuncio del Regno. La spiritualità comporta un costante riferimento a Cristo in cui l’uomo si rende disponibile all’opera dello Spirito Santo. Sono i poveri che costituiscono la miglior risorsa spirituale per le nostre comunità parrocchiali se nelle pieghe della loro dolorosa esperienza opera incessantemente l’amore di Cristo che continua a redimere e a salvare il mondo. I poveri non hanno ancora trovato lo spazio che spetta loro di diritto sia nella programmazione nella pastorale, sia nell’ambito della liturgia, sia nella gestione economica e sia nei rapporti con le pubbliche istituzioni. Ogni giorno siamo costretti a subire l’esperienza che chi ha il potere tende a prevaricare dandosi ragione contro i poveri. Anche la Chiesa ha fatto e rischia di fare tuttora questo affronto ai poveri se continua a navigare nella mentalità di scelte consumistiche e a ritenere più importanti i templi manufatti dei templi creati da Dio a sua immagine e somiglianza per inabitarvi. Bisogna anche riconoscere che alle nostre comunità parrocchiali è mancata sinora la proposta di un’autentica teologia sui poveri, sull’uso del potere e del denaro. Si sente infatti il bisogno di una sintesi dottrinale capace di imporsi come progetto interpretativo dell’opzione o dell’amore preferenziale per i poveri. Se è vero che Cristo si fa rappresentare prima dagli ultimi che dalla gerarchia, è spiegabile che insorga dalla base una richiesta di chiarificazione sull’amore preferenziale per i poveri che rimangano comunque nell’attesa. Nella Chiesa, e quindi in noi cristiani, non si è ancora affermata con sufficiente efficacia la virtù della povertà che non vuole essere scelta di indigenza, ma di uno stile più conforme al Vangelo di vita per aderire pienamente all’annuncio del Regno prima di poterlo proporre agli altri. Da tutto ciò si accusa ancora una volta la mancanza della teologia della carità che si sposa con la teologia della povertà, cioè del pieno rispetto o meglio riconoscimento della dignità della persona a cui Dio si è donato e per cui non è possibile amare l’uno senza amare l’altro. Quando si guarda al povero si guarda a Cristo che nel povero vuole essere riconosciuto, servito e amato. Si è pensato anche di proporre di offrire ai poveri i tesori della Chiesa, ma se da una parte ciò potrebbe costituire una testimonianza di amore, dall’altra parte costituirebbe pure un’accusa per coloro che non hanno ancora capito che il problema poveri non si risolve con una elargizione, una tantum, ma con il coinvolgimento di tutti i cristiani che devono singolarmente e comunitariamente farsi carico del problema che continuerà a esistere. Gesù infatti, a Giuda scandalizzato che la Maddalena sciupasse un profumo prezioso per ungere il Maestro, profumo che si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri, disse: «...i poveri li avrete sempre con voi» (Mt 26, 6-7; Mc 14, 3; Gv 12, 7). La Chiesa sappia quindi che i suoi veri tesori sono i poveri di cui dovrà sempre prendersi cura sia per aiutarli primum vivere e sia per evangelizzarli: «...Querite primum regnum Dei» (cercate innanzitutto il regno di Dio, perché il resto vi verrà dato in aggiunta): Mt 6, 33 e 13, 44. Dopo la precedente riflessione sono seguite delle proposte concrete:
• creare la Commissione Caritas con lo scopo di coordinare le varie iniziative presenti nelle parrocchie con compiti di formazione, sensibilizzazione e di aiuto, tenendo sotto controllo le realtà a rischio per intervenire tempestivamente;
• formare il gruppo volontariato di cui poter disporre come persone qualificate sotto ogni aspetto in ogni caso di necessità;
• favorire momenti di riflessione su questi temi nei tempi forti dell’anno (Avvento e Quaresima) e nella celebrazione di feste particolarmente sentite dalla popolazione;
• favorire l’istruzione religiosa da cui dovrebbero scaturire sentimenti di accoglienza e di comunione;
• studiare e preparare cammini di conversione e di penitenza con preghiere e digiuni cercando di coinvolgere soprattutto i giovani;
• sensibilizzare i pensionati perché abbiano a impiegare il loro tempo libero nella testimonianza del Vangelo della carità;
• creare la giornata della povertà parrocchiale, vicariale, diocesana, organizzandola convenientemente;
• inserire il problema dell’amore preferenziale per i poveri nel piano pastorale;
• utilizzare tutti i mezzi di comunicazione per trasmettere e ricevere tutto quanto gravita intorno all’universo povertà.
dg
LA BIBBIA
NELLA VITA DELLA CHIESA

Siamo a trentanni dalla promulgazione della costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione (18-11-1965). La commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, la ripropone con una nota pastorale pubblicata il 22-12-1995 dal titolo: «La Bibbia nella Vita della Chiesa».
I due discepoli di Emmaus, nella spiegazione delle Scritture fatta loro dal Risorto, ritrovarono il calore del cuore, riscoprirono le ragioni della speranza e furono avvolti dalla gioia dell’incontro (Lc 24, 13-5). La Dei Verbum al n. 21 afferma: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio e sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli».
Il racconto di Emmaus propone ai cristiani la via per incontrare e conoscere la parola di Dio, Gesù, il Signore vivente, il maestro che introduce nel mistero della Parola, l’interlocutore diretto di chi apre il libro sacro. Gesù sparì dai loro occhi, eppure essi erano felici poiché egli era già dentro il loro cuore e grazie alla Parola che li animava diventarono messaggeri della Risurrezione presso i fratelli. A quanti si accostano alle Scritture, Gesù dice: «Sono proprio esse che mi rendono testimonianza» (Gv 5, 39). S. Girolamo afferma: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo».
La nota della CEI, dopo un’introduzione che qui abbiamo già in parte riassunto, si articola in tre parti:
• verifica dello stato di salute biblica dei credenti italiani nel post Concilio Vaticano II;
• principi e criteri per un retto uso della Bibbia;
• forme e vie d’incontro con la parola di Dio.
1) Verifica dello stato di salute biblica dei credenti nel post-concilio.
Vari documenti pontifici, in questi ultimi tempi, hanno spalancato la strada alle sacre Scritture (Provvidentissimus Deus di Leone XIII; Spiritus Paraclitus di Benedetto XV del 1920 che diede avvio al movimento biblico; Divino afflante Spiritu di Pio XII; il Conc. Vat. II con la Dei Verbum). Molti praticano la lectio divina e le scuole della Parola immettono nella conoscenza della sacra Bibbia, recentemente pubblicata, oltre che dalla CEI anche per uso liturgico, a livello interconfessionale. La Bibbia tuttavia, pur essendo il libro tra i più diffusi è anche tra i meno letti. La predicazione medesima ignora volentieri frequentemente la Bibbia. La stessa liturgia a volte trascura i testi sacri proposti da proclamare e meditare. Non è comunque il libro più amato dai fedeli anche perché pastoralmente non lo si fa amare.
2) Principi e criteri per un retto uso della Bibbia.
La Bibbia è un’amorosa e benefica comunicazione del Padre, pertanto va considerata come un incontro di fede e di amore. La Dei Verbum, citata, è uno strumento per la retta comprensione della Bibbia da far conoscere a tutti i cristiani. S. Gregorio Magno ci ammonisce: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio» (Vat. TI: SC Sacrosantum Concilum, costituzione sulla liturgia, n. 7).
L’incontro con la Bibbia avviene nel seno della Chiesa illuminati dall’esempio di Maria «nel cui grembo Dio ha convogliato tutto l’insieme delle Scritture» a luce e conforto del suo popolo (Ruperto di Deutz). La S. Scrittura è il libro di ieri e di oggi in cui si rispecchiano le domande e le risposte, i dolori e le gioie, i dubbi e le certezze dell’uomo di ogni tempo — patrimonio spirituale di tutta l’umanità. La Parola suscita la fede e convoca la Chiesa che accoglie, interpreta e trasmette la Parola medesima. S. Gregorio Magno afferma: «So infatti che per lo più molte cose nelle S. Scritture che da solo non sono riuscito a capire, le ho comprese mettendomi di fronte ai miei fratelli».
Ecco succintamente le norme oggettive citate dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
— ricercare il senso letterale usando il metodo storico escludendo la lettura soggettiva;
— essere attenti al contenuto e all’unità di tutta la S. Scrittura e dunque al mistero di Cristo e della Chiesa;
— leggere la Scrittura nella tradizione vivente di tutta la Chiesa;
— essere attenti all’analogia della fede, cioè alla coesione delle verità della fede tra loro nella totalità del progetto della divina rivelazione;
— realizzare il processo d’inculturazione e attualizzazione, grazie al quale la parola di Dio risuona come parola d’oggi.
Occorre evitare il duplice pericolo che la pratica della Bibbia porti al distacco dal Magistero, poiché ciò che lo Spirito comunica nel libro sacro avviene nella Chiesa in comunione coi suoi pastori, e che non sia, tale pratica, incontro con Gesù Cristo che stimola alla carità e all’impegno missionario. Bisogna sempre saper leggere la Bibbia con la vita e la vita con la Bibbia perché la Bibbia appartiene alla vita della Chiesa come documento di fondazione della Chiesa medesima.
3) Forme e vie d’incontro con la parola di Dio nella Bibbia.
Compete ai vescovi «istruire opportunamente i fedeli loro affidati circa il retto uso dei libri divini, del N.T. e dei Vangeli in particolare (Dei Verbum n. 25).
Lo Spirito del Signore chiama ogni comunità a realizzare una penetrante presenza della Bibbia in ogni ambito della pastorale:
a) Nella celebrazione liturgica: la liturgia non vive senza la parola di Dio che rende possibile l’ascolto e il rendimento di grazie per il dono che si riceve rendendo così familiare la Bibbia ai fedeli. La Parola di Dio è la prima mensa che ci rende capaci di ricevere la seconda mensa dell’eucaristia, prima Dio parla e poi si dona. L’omelia deve essere pertanto il lieto annunzio della salvezza che Dio ci offre. Bisogna evitare quindi ogni strumentalizzazione.
b) Nel cammino d’iniziazione: l’iniziazione ai sacramenti comporta innanzittuto l’iniziazione alla parola di Dio. È lo scopo primario della catechesi che deve elaborare percorsi di iniziazione biblica per bambini, fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. Occorre valorizzare i manuali di storia sacra adeguati alle diverse età.
c) Nella catechesi: la catechesi è una delle vie più eminenti di contatto con la Bibbia in cui c’è un intreccio armonico tra diversi dati: dogmatico, storico, ecclesiale, sacramentale, etico, antropologico. I catechismi collegano la fede con le tre esperienze: la dottrina, i sacramenti, la carità, cioè: la proclamazione, la celebrazione e la testimonianza della parola di Dio.
d) Nella scuola: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole considera la Bibbia come fonte primaria di riferimento. È l’alfabetizzazione culturale circa la Bibbia di cui si deve far conoscere l’identità storica, letteraria e teologica con la sua collocazione nella vita della Chiesa e con lo scopo d’illuminare e orientare la vita degli alunni.
e) Diverse opportunità. Ogni comunità deve essere messa in grado di ascoltare e meditare con frutto la Bibbia valorizzando le diverse occasioni che si presentano nel ministero pastorale.
Modi e ambiti d’incontro con la Bibbia
1) La lectio divina: è una lettura, individuale o comunitaria, di un passo della Scrittura accolta come parola di Dio e che si sviluppa sotto lo stimolo dello Spirito in meditazione, preghiera e contemplazione, per cui diventa, la S. Scrittura, fonte di vita interiore. La lectio divina, originariamente praticata nei monasteri, oggi, seguendo l’invito del Vaticano II, viene offerta a tutti i fedeli in Cristo. Va pertanto progettata e sostenuta in ogni comunità.
2) La diffusione della Bibbia. Bisogna diffondere il testo della Bibbia e insistere perché sia letta e meditata. È valido il testo della CEI come il testo della Bibbia interconfessionale. Si esige comunque sempre un momento di formazione biblica di base esteso anche alle famiglie.
3) L’incontro con la Bibbia: ha un’importanza decisiva nel dialogo ecumenico e anche per rendere solida la propria fede di fronte all’aggressività delle sette che diffondono testi manipolati, che traggono in inganno i fedeli impreparati.
4) Bibbia e cultura oggi: è ampiamente riconosciuto che la Bibbia è matrice di tante parti della cultura occidentale e di quella italiana in particolare, ed è stimata anche dai non credenti. Per esempio, i proverbi della S. Scrittura risuonano ormai sulle labbra della nostra gente magari tradotti nella lingua volgare e persino dialettale. La nota della CEI si sofferma ancora sull’importanza della formazione degli operatori o animatori a ogni livello della parola di Dio e propongono come modello perfetto l’esempio di Maria Vergine, immagine perfetta della Chiesa anche per il modo con cui incontra la parola di Dio: l’ascolta attentamente, la medita in cuor suo e vi si dona senza riserve: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38). La nota della CEI è un prezioso documento da considerare attentamente se vogliamo che tutta la nostra pastorale, frequentemente senz’anima, abbia a rivivere e a incidere fruttuosamente nell’animo dei nostri fedeli ancora così estranei alla parola di Dio o almeno ancora troppo indifferenti a causa di un mancato coinvolgimento biblico nell'ambito della nostra comunità di fede.
d.G.G.
I due discepoli di Emmaus, nella spiegazione delle Scritture fatta loro dal Risorto, ritrovarono il calore del cuore, riscoprirono le ragioni della speranza e furono avvolti dalla gioia dell’incontro (Lc 24, 13-5). La Dei Verbum al n. 21 afferma: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio e sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli».
Il racconto di Emmaus propone ai cristiani la via per incontrare e conoscere la parola di Dio, Gesù, il Signore vivente, il maestro che introduce nel mistero della Parola, l’interlocutore diretto di chi apre il libro sacro. Gesù sparì dai loro occhi, eppure essi erano felici poiché egli era già dentro il loro cuore e grazie alla Parola che li animava diventarono messaggeri della Risurrezione presso i fratelli. A quanti si accostano alle Scritture, Gesù dice: «Sono proprio esse che mi rendono testimonianza» (Gv 5, 39). S. Girolamo afferma: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo».
La nota della CEI, dopo un’introduzione che qui abbiamo già in parte riassunto, si articola in tre parti:
• verifica dello stato di salute biblica dei credenti italiani nel post Concilio Vaticano II;
• principi e criteri per un retto uso della Bibbia;
• forme e vie d’incontro con la parola di Dio.
1) Verifica dello stato di salute biblica dei credenti nel post-concilio.
Vari documenti pontifici, in questi ultimi tempi, hanno spalancato la strada alle sacre Scritture (Provvidentissimus Deus di Leone XIII; Spiritus Paraclitus di Benedetto XV del 1920 che diede avvio al movimento biblico; Divino afflante Spiritu di Pio XII; il Conc. Vat. II con la Dei Verbum). Molti praticano la lectio divina e le scuole della Parola immettono nella conoscenza della sacra Bibbia, recentemente pubblicata, oltre che dalla CEI anche per uso liturgico, a livello interconfessionale. La Bibbia tuttavia, pur essendo il libro tra i più diffusi è anche tra i meno letti. La predicazione medesima ignora volentieri frequentemente la Bibbia. La stessa liturgia a volte trascura i testi sacri proposti da proclamare e meditare. Non è comunque il libro più amato dai fedeli anche perché pastoralmente non lo si fa amare.
2) Principi e criteri per un retto uso della Bibbia.
La Bibbia è un’amorosa e benefica comunicazione del Padre, pertanto va considerata come un incontro di fede e di amore. La Dei Verbum, citata, è uno strumento per la retta comprensione della Bibbia da far conoscere a tutti i cristiani. S. Gregorio Magno ci ammonisce: «Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio» (Vat. TI: SC Sacrosantum Concilum, costituzione sulla liturgia, n. 7).
L’incontro con la Bibbia avviene nel seno della Chiesa illuminati dall’esempio di Maria «nel cui grembo Dio ha convogliato tutto l’insieme delle Scritture» a luce e conforto del suo popolo (Ruperto di Deutz). La S. Scrittura è il libro di ieri e di oggi in cui si rispecchiano le domande e le risposte, i dolori e le gioie, i dubbi e le certezze dell’uomo di ogni tempo — patrimonio spirituale di tutta l’umanità. La Parola suscita la fede e convoca la Chiesa che accoglie, interpreta e trasmette la Parola medesima. S. Gregorio Magno afferma: «So infatti che per lo più molte cose nelle S. Scritture che da solo non sono riuscito a capire, le ho comprese mettendomi di fronte ai miei fratelli».
Ecco succintamente le norme oggettive citate dal Catechismo della Chiesa Cattolica:
— ricercare il senso letterale usando il metodo storico escludendo la lettura soggettiva;
— essere attenti al contenuto e all’unità di tutta la S. Scrittura e dunque al mistero di Cristo e della Chiesa;
— leggere la Scrittura nella tradizione vivente di tutta la Chiesa;
— essere attenti all’analogia della fede, cioè alla coesione delle verità della fede tra loro nella totalità del progetto della divina rivelazione;
— realizzare il processo d’inculturazione e attualizzazione, grazie al quale la parola di Dio risuona come parola d’oggi.
Occorre evitare il duplice pericolo che la pratica della Bibbia porti al distacco dal Magistero, poiché ciò che lo Spirito comunica nel libro sacro avviene nella Chiesa in comunione coi suoi pastori, e che non sia, tale pratica, incontro con Gesù Cristo che stimola alla carità e all’impegno missionario. Bisogna sempre saper leggere la Bibbia con la vita e la vita con la Bibbia perché la Bibbia appartiene alla vita della Chiesa come documento di fondazione della Chiesa medesima.
3) Forme e vie d’incontro con la parola di Dio nella Bibbia.
Compete ai vescovi «istruire opportunamente i fedeli loro affidati circa il retto uso dei libri divini, del N.T. e dei Vangeli in particolare (Dei Verbum n. 25).
Lo Spirito del Signore chiama ogni comunità a realizzare una penetrante presenza della Bibbia in ogni ambito della pastorale:
a) Nella celebrazione liturgica: la liturgia non vive senza la parola di Dio che rende possibile l’ascolto e il rendimento di grazie per il dono che si riceve rendendo così familiare la Bibbia ai fedeli. La Parola di Dio è la prima mensa che ci rende capaci di ricevere la seconda mensa dell’eucaristia, prima Dio parla e poi si dona. L’omelia deve essere pertanto il lieto annunzio della salvezza che Dio ci offre. Bisogna evitare quindi ogni strumentalizzazione.
b) Nel cammino d’iniziazione: l’iniziazione ai sacramenti comporta innanzittuto l’iniziazione alla parola di Dio. È lo scopo primario della catechesi che deve elaborare percorsi di iniziazione biblica per bambini, fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. Occorre valorizzare i manuali di storia sacra adeguati alle diverse età.
c) Nella catechesi: la catechesi è una delle vie più eminenti di contatto con la Bibbia in cui c’è un intreccio armonico tra diversi dati: dogmatico, storico, ecclesiale, sacramentale, etico, antropologico. I catechismi collegano la fede con le tre esperienze: la dottrina, i sacramenti, la carità, cioè: la proclamazione, la celebrazione e la testimonianza della parola di Dio.
d) Nella scuola: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole considera la Bibbia come fonte primaria di riferimento. È l’alfabetizzazione culturale circa la Bibbia di cui si deve far conoscere l’identità storica, letteraria e teologica con la sua collocazione nella vita della Chiesa e con lo scopo d’illuminare e orientare la vita degli alunni.
e) Diverse opportunità. Ogni comunità deve essere messa in grado di ascoltare e meditare con frutto la Bibbia valorizzando le diverse occasioni che si presentano nel ministero pastorale.
Modi e ambiti d’incontro con la Bibbia
1) La lectio divina: è una lettura, individuale o comunitaria, di un passo della Scrittura accolta come parola di Dio e che si sviluppa sotto lo stimolo dello Spirito in meditazione, preghiera e contemplazione, per cui diventa, la S. Scrittura, fonte di vita interiore. La lectio divina, originariamente praticata nei monasteri, oggi, seguendo l’invito del Vaticano II, viene offerta a tutti i fedeli in Cristo. Va pertanto progettata e sostenuta in ogni comunità.
2) La diffusione della Bibbia. Bisogna diffondere il testo della Bibbia e insistere perché sia letta e meditata. È valido il testo della CEI come il testo della Bibbia interconfessionale. Si esige comunque sempre un momento di formazione biblica di base esteso anche alle famiglie.
3) L’incontro con la Bibbia: ha un’importanza decisiva nel dialogo ecumenico e anche per rendere solida la propria fede di fronte all’aggressività delle sette che diffondono testi manipolati, che traggono in inganno i fedeli impreparati.
4) Bibbia e cultura oggi: è ampiamente riconosciuto che la Bibbia è matrice di tante parti della cultura occidentale e di quella italiana in particolare, ed è stimata anche dai non credenti. Per esempio, i proverbi della S. Scrittura risuonano ormai sulle labbra della nostra gente magari tradotti nella lingua volgare e persino dialettale. La nota della CEI si sofferma ancora sull’importanza della formazione degli operatori o animatori a ogni livello della parola di Dio e propongono come modello perfetto l’esempio di Maria Vergine, immagine perfetta della Chiesa anche per il modo con cui incontra la parola di Dio: l’ascolta attentamente, la medita in cuor suo e vi si dona senza riserve: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1, 38). La nota della CEI è un prezioso documento da considerare attentamente se vogliamo che tutta la nostra pastorale, frequentemente senz’anima, abbia a rivivere e a incidere fruttuosamente nell’animo dei nostri fedeli ancora così estranei alla parola di Dio o almeno ancora troppo indifferenti a causa di un mancato coinvolgimento biblico nell'ambito della nostra comunità di fede.
d.G.G.
S. LORENZO MARTIRE:
10 AGOSTO 1996
S. Lorenzo Martire è l’uomo del fuoco. È divorato infatti dal fuoco dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo che è sempre lo stesso amore che non si differenzia se non nella misura in cui deve prendere la sua direzione: verticale, verso Dio, e orizzontale, verso il prossimo. S. Lorenzo Martire pertanto è l‘uomo che può scherzare col fuoco su cui viene abbrustolito, come un capretto allo spiedo, perché dentro di lui c'è il fuoco dello Spirito di Dio che è assai più potente del fuoco di qualsiasi fornace. I santi Padri infatti affermano che il rottame della nostra vita, se gettato nella fornace ardente dell’amore di Dio, viene assimilato per cui diviene fuoco nel fuoco, luce nella luce senza che rimanga più nulla di sè per cui si possa dire che è un rottame. La prova del fuoco ha dato ragione a Lorenzo poiché ne ha superato mirabilmente la forza incandescente col martirio che l’ha assimilato a Cristo in cui noi oggi lo contempliamo nello splendore della stessa gloria eterna. Il fuoco su cui Lorenzo è stato arrostito si è spento così come si spegnerà ogni altro fuoco sulla terra, mentre l’altro fuoco dell’amore rimane acceso e nessuno mai lo potrà spegnere perché rimarrà sempre a testimonianza per tutti quanti sull’esempio di Lorenzo vogliono o vorranno credere alla potenza dell’amore capace di vincere la stessa morte. La festa di S. Lorenzo Martire, dato anche il periodo estivo in cui viene celebrata, potremmo definirla la festa del fuoco, cioè dell’amore divino che, come quello del roveto ardente del Monte Oreb, a cui si appressò Mosè, non consuma ma purifica, illumina e da vigore di nuova vita a tutti quanti lo vogliono condividere. Se il popolo zognese si ritrova gioiosamente ancora una volta, come sempre, per celebrare la solennità del proprio protettore S. Lorenzo, deve decidersi ad accendere questo fuoco purificatore di cui l'umanità ha estrema necessità affinché possa conquistare la potenza di vincere ogni altro fuoco del disamore che ci disonora mentre dissemina rovina e perdizione in questo nostro mondo che Dio, anche attraverso l’esempio e l’intercessione dei santi, vuole redimere e salvare.
Coi migliori auguri di ogni bene. don Giulio |
DOPO IL CONVEGNO DI PALERMO:
LA NUOVA PASTORALE
Dopo il Convegno di Palermo, dal 20 al 25 novembre 1995, e dopo il Miniconvegno di Villa d’Almè, del 17 marzo 1996, riemerge la necessità di calare nella realtà locale quanto è maturato dalla verifica della pastorale tradizionale per un suo urgente rinnovamento richiesto dalle esigenze della nostra comunità ecclesiale che si trova a dover fronteggiare i gravi problemi di un mondo continuamente in evoluzione. Si tratta logicamente di problemi che riguardano la fede e i costumi di una società che naviga nell’ignoranza religiosa sostenuta dalla presunzione che tutti possono improvvisarsi maestri in fatto di dottrina cristiana. Il tema del Convegno «Il Vangelo della Carità per una nuova società in Italia» già precisa il cammino da percorrere per l’aggiornamento della pastorale, cammino che si dirama, come proposta, attraverso cinque vie preferenziali: la cultura e la comunicazione sociale; l‘impegno sociale e politico; l’amore preferenziale per i poveri; la famiglia; i giovani. A livello vicariale già ci siamo impegnati ad affrontare lo studio della terza via, cioè l’opzione per i poveri. Ora, senza trascurare le prime due, ci siamo proposti di soffermarci soprattutto sui temi: la famiglia e i giovani.
La famiglia
È il nido della vita, di tutta la vita umana e cristiana, che scaturisce dall’amore di due creature che si condividono vivendo l’una per l’altra unite dalla grazia del sacramento del matrimonio per cui costituisce come una piccola chiesa domestica aperta alla procreazione con cui Dio suscita le sue nuove creature. Questa è la famiglia cristiana che non differisce dalle altre se non per la fede di cui si nutre e che si impegna a testimoniare nell’ambito della comunità in cui vive. Ma a questo modello di famiglia si contrappongono altri modelli che ormai non costituiscono più soltanto un’eccezione alla regola, ma che a livello pastorale non possiamo ignorare e tanto meno rifiutare. La zona periferica della parrocchia, pastoralmente parlando, si diffonde a macchia d’olio per cui ogni giorno siamo costretti a dover prenderne atto senza la possibilità di poterla arginare (sono convivenze, infedeltà coniugali, separazioni, divorzi, aborti, prostituzione, delinquenza, abbandono della pratica cristiana, culto del denaro, ecc.). Si naviga in un mare di fragilità, ciò che è umano, ma con l’aggiunta di troppi compromessi e faciloneria con cui si giustifica tutto a scapito anche delle persone innocenti, come i bambini. Ma più l’uomo cade in basso e più ha bisogno di Dio, di quel Dio che non si tira mai indietro di fronte all’uomo che lo cerca.
Si tratta ora di riuscire a suscitare la pastorale della ricerca di Dio affinché, dopo l’esperienza negativa della propria vita, ci si arrenda per decidersi a ripartire da Dio, come ci ammonisce il card. Martini. Dal momento tuttavia che sappiamo che è Dio che salva, non possiamo in ogni caso ingenerare il pessimismo per scoraggiare la pastorale del ricupero. Il Padre celeste lascia sempre spalancata la porta di casa al figlio che decide di tornare. Da qui la necessità di studiare con tutti i responsabili un progetto-famiglia che si estenda a tutto il tempo in cui matura una famiglia. È indispensabile l’impegno di ogni famiglia per la nuova famiglia. Senza il coinvolgimento di tutta la comunità è destinata a naufragare la catechesi e la pastorale a ogni livello. Il binario su cui scorre la nuova evangelizzazione non può essere che la testimonianza della carità che rende possibile una presenza discreta e di pieno rispetto alle persone da parte dell’operatore della pastorale sempre pronto alla condivisione delle gioie e dei dolori senza correre il rischio d’imbastire processi e di colpevolizzare le persone pur evitando d’indulgere a situazioni che non si possono onestamente condividere. Anche la famiglia più sventurata può essere sorgente di grandi valori umani e cristiani perché là dove c’è vita si annida la presenza di Dio che salva. La famiglia, prima di ogni altra istituzione, ha in sè il diritto e il dovere di educare i figli, compito che non potrà mai delegare a nessuno anche se richiede aiuto e collaborazione da parte di tutta la comunità civile e religiosa. La famiglia ha inoltre il dovere di confrontarsi anche con le altre famiglie per scambiarsi il dono reciproco della condivisione dal momento che ogni famiglia fa parte della medesima comunità. I metodi educativi dovrebbero così scaturire da una comune verifica sempre alla luce di fondati principi naturali e religiosi che non si possono in nessun modo scalzare. I figli, che in questi nostri tempi sono quasi esclusivamente figli unici, dovrebbero poter sentirsi, anche fuori di casa, come in un‘unica famiglia dove reciprocamente i genitori pure dovrebbero sentirsi responsabili insieme dei propri e degli altri figli. Quanto ai metodi educativi, che tali frequentemente non risultano, invalsi in questi ultimi decenni sembrano controproducenti, poiché creano falsi modelli umani, e pertanto si devono verificare con umiltà per trovarne concretamente il rimedio. Ad esempio, bisogna convincersi che se si vuole educare, bisogna responsabilizzare subito il figlio sin dalla più tenera età. Non gli si può quindi dare tutto ciò che chiede col pretesto che i tempi sono cambiati; non si può permettere che soddisfi ogni desiderio nel mangiare e nel bere nel timore che a negargli qualcosa possa scatenare in lui pericolosi complessi; bisogna evitare di sostituirsi al figlio nel mettere ordine in tutto ciò che lascia fuori posto; bisogna controllare, sia pure in tanto garbo, gli amici che frequenta, i films che vede compresi i programmi Tv; non si possono coprire i suoi gravi difetti esaltandone le apparenti virtù o scagionarlo dalle accuse che gli provengono dalla scuola o dai responsabili della sua educazione; a volte lo si processa per cose futili e poi si passa sopra alle gravi mancanze che commette; si deve evitare di servirlo in tutto come se tutto gli fosse dovuto rinunciando alla sua collaborazione e alla sua riconoscenza che può esprimere almeno con un affettuoso «grazie!»; i genitori a volte si vergognano di pregare con lui o alla sua presenza e di partecipare uniti alla Messa domenicale; non si deve mai esigere dal figlio ciò che non è in grado di poter dare, come la condivisione indiscussa della mentalità dei genitori, ciò che nella crescita la natura li porta a rinnegare ma non come rifiuto, bensì come apertura a una situazione che cambia; se il figlio non fa, sia pure nei limiti della sua età, l’esperienza del dolore e dei disagi che esistono attorno a lui e non si abitua alla testimonianza dell’amore, non potrà che fare la fortuna della ricchezza con la sventura di diventarne schiavo. I figli si educano soprattutto col buon esempio perché se le parole volano, l’esempio rimane.
I giovani
Il mondo dei giovani è il mondo dell’avvenire anche se intanto rischia di essere anche il mondo delle contraddizioni destinato comunque a mutare col fattore del tempo che decide sui cambiamenti di tutti nell’arco della propria vita. Attualmente si nota nel mondo giovanile una forte difficoltà ad accedere all’esperienza di Dio e a promuovere la propria appartenenza alla Chiesa. Al contrario sembrano più inclini a lasciarsi coinvolgere nel mondo del consumismo in tutti i campi, come nelle precoci esperienze sessuali, nei divertimenti sfrenati, nell’uso degli stupefacenti, nell’agonismo senza tenere in giusto conto la salute e la vita, sprovvisti di un’ideale apertura all’aspetto escatologico della propria esistenza. Questo tuttavia è un mondo che i giovani non hanno potuto fare in tempo a crearsi per conto proprio, ma l’hanno ereditato da una comunità irresponsabile anche se poi i giovani si lasciano sedurre. Ecco in concreto l’altra strada che forse non è stata sufficientemente proposta ai giovani con chiarezza e che potrebbero percorrere con grande entusiasmo e successo. Dobbiamo affermare con convinzione che Gesù Cristo e i giovani sono fatti per incontrarsi. Gesù annuncia a ogni giovane che Dio lo ama, lo cerca, lo accoglie, gli dà la capacità di vivere in pienezza. La Chiesa promuove rincontro con Gesù Cristo per un patto di amore che dà pieno significato a tutta la vita del giovane, poiché ripone nel giovane la più lusinghiera speranza del proprio avvenire. Come non si può immaginare una famiglia con l’assenza dei giovani, altrettanto non si può immaginare la famiglia più grande della Chiesa costituita soltanto d’infanti e di anziani sprovvista della presenza vigorosa della fascia giovanile. Il luogo dell’incontro con Cristo, è la vita del giovane. Ogni giovane vale per se stesso: è un dono di Dio per la società e per la Chiesa. Egli deve chiedere di partecipare attivamente, da soggetto responsabile, alla propria crescita e anche' a quella religiosa. La vita del giovane non può prescindere da un’esperienza e da un progetto di famiglia, da un coinvolgimento nella vita sociale e politica, dalla professione, dal confronto col mondo dei poveri, ciò che esige educazione, cultura e comunicazione. Per crescere nella fede ogni giovane ha diritto di essere accolto nell’originalità della sua persona secondo la sua condizione e ambiente di vita. Tutto questo esige una pastorale di accostamento personale basata su un progetto costruito insieme e condiviso per un cammino di fede. Nella Chiesa i giovani hanno un posto che non può rimanere vuoto ma che essi stessi devono riempire, mettendoci dentro il proprio impegno di animazione e di vivacità a vantaggio anche di tutti gli altri che non sono ancora giovani o che non sono più giovani. Non esisterà mai la Chiesa dei giovani finché essi stessi non si saranno impegnati a costruirsela. Troppi giovani restano ai margini della Chiesa. Non possiamo in questo caso aspettare che essi vengano a noi e sarà difficile che possano venire se non saranno sollecitati da altri giovani sensibili al problema missionario del coinvolgimento. Riemerge quindi la necessità di stendere progetti e itinerari educativi in cui i giovani siano protagonisti attivi della propria educazione e capaci di generoso servizio alla comunità medesima. Nella comunità bisogna destinare spazi da riservare ai giovani perché non abbiano a sentirsi estraniati col rischio di suscitare l’impressione che la Chiesa può andare avanti anche senza di loro. Una volta responsabilizzati, i giovani funzionano con grande soddisfazione di tutti. E indispensabile promuovere i gruppi del Vangelo perché in essi i giovani abbiano a ritrovare la strada che li riconduce a Cristo. Così pure è indispensabile immettere i giovani nel volontariato perché imparino a riconoscere Cristo nei fratelli infermi e sofferenti. Ciascuno ha la fede che sa donare attraverso la testimonianza con cui, a parte l’aggiornamento del linguaggio, si comunica felicemente anche coi sordi e con gli estranei. Ciò che uccide la credibilità della Chiesa dei giovani sono le contraddizioni e le incoerenze da una parte e i compromessi che si assecondano dall’altra forse nell’intento di poter conquistare meglio la loro adesione o di evitarne la perdita. Purtroppo sono destinati a fallire tutti i nostri meravigliosi progetti sui giovani quando li fabbrichiamo senza coinvolgere gli interessati nel predisporli. Fiducia per fiducia, bisogna saperne spendere tanta per ottenerne altrettanta.
La famiglia
È il nido della vita, di tutta la vita umana e cristiana, che scaturisce dall’amore di due creature che si condividono vivendo l’una per l’altra unite dalla grazia del sacramento del matrimonio per cui costituisce come una piccola chiesa domestica aperta alla procreazione con cui Dio suscita le sue nuove creature. Questa è la famiglia cristiana che non differisce dalle altre se non per la fede di cui si nutre e che si impegna a testimoniare nell’ambito della comunità in cui vive. Ma a questo modello di famiglia si contrappongono altri modelli che ormai non costituiscono più soltanto un’eccezione alla regola, ma che a livello pastorale non possiamo ignorare e tanto meno rifiutare. La zona periferica della parrocchia, pastoralmente parlando, si diffonde a macchia d’olio per cui ogni giorno siamo costretti a dover prenderne atto senza la possibilità di poterla arginare (sono convivenze, infedeltà coniugali, separazioni, divorzi, aborti, prostituzione, delinquenza, abbandono della pratica cristiana, culto del denaro, ecc.). Si naviga in un mare di fragilità, ciò che è umano, ma con l’aggiunta di troppi compromessi e faciloneria con cui si giustifica tutto a scapito anche delle persone innocenti, come i bambini. Ma più l’uomo cade in basso e più ha bisogno di Dio, di quel Dio che non si tira mai indietro di fronte all’uomo che lo cerca.
Si tratta ora di riuscire a suscitare la pastorale della ricerca di Dio affinché, dopo l’esperienza negativa della propria vita, ci si arrenda per decidersi a ripartire da Dio, come ci ammonisce il card. Martini. Dal momento tuttavia che sappiamo che è Dio che salva, non possiamo in ogni caso ingenerare il pessimismo per scoraggiare la pastorale del ricupero. Il Padre celeste lascia sempre spalancata la porta di casa al figlio che decide di tornare. Da qui la necessità di studiare con tutti i responsabili un progetto-famiglia che si estenda a tutto il tempo in cui matura una famiglia. È indispensabile l’impegno di ogni famiglia per la nuova famiglia. Senza il coinvolgimento di tutta la comunità è destinata a naufragare la catechesi e la pastorale a ogni livello. Il binario su cui scorre la nuova evangelizzazione non può essere che la testimonianza della carità che rende possibile una presenza discreta e di pieno rispetto alle persone da parte dell’operatore della pastorale sempre pronto alla condivisione delle gioie e dei dolori senza correre il rischio d’imbastire processi e di colpevolizzare le persone pur evitando d’indulgere a situazioni che non si possono onestamente condividere. Anche la famiglia più sventurata può essere sorgente di grandi valori umani e cristiani perché là dove c’è vita si annida la presenza di Dio che salva. La famiglia, prima di ogni altra istituzione, ha in sè il diritto e il dovere di educare i figli, compito che non potrà mai delegare a nessuno anche se richiede aiuto e collaborazione da parte di tutta la comunità civile e religiosa. La famiglia ha inoltre il dovere di confrontarsi anche con le altre famiglie per scambiarsi il dono reciproco della condivisione dal momento che ogni famiglia fa parte della medesima comunità. I metodi educativi dovrebbero così scaturire da una comune verifica sempre alla luce di fondati principi naturali e religiosi che non si possono in nessun modo scalzare. I figli, che in questi nostri tempi sono quasi esclusivamente figli unici, dovrebbero poter sentirsi, anche fuori di casa, come in un‘unica famiglia dove reciprocamente i genitori pure dovrebbero sentirsi responsabili insieme dei propri e degli altri figli. Quanto ai metodi educativi, che tali frequentemente non risultano, invalsi in questi ultimi decenni sembrano controproducenti, poiché creano falsi modelli umani, e pertanto si devono verificare con umiltà per trovarne concretamente il rimedio. Ad esempio, bisogna convincersi che se si vuole educare, bisogna responsabilizzare subito il figlio sin dalla più tenera età. Non gli si può quindi dare tutto ciò che chiede col pretesto che i tempi sono cambiati; non si può permettere che soddisfi ogni desiderio nel mangiare e nel bere nel timore che a negargli qualcosa possa scatenare in lui pericolosi complessi; bisogna evitare di sostituirsi al figlio nel mettere ordine in tutto ciò che lascia fuori posto; bisogna controllare, sia pure in tanto garbo, gli amici che frequenta, i films che vede compresi i programmi Tv; non si possono coprire i suoi gravi difetti esaltandone le apparenti virtù o scagionarlo dalle accuse che gli provengono dalla scuola o dai responsabili della sua educazione; a volte lo si processa per cose futili e poi si passa sopra alle gravi mancanze che commette; si deve evitare di servirlo in tutto come se tutto gli fosse dovuto rinunciando alla sua collaborazione e alla sua riconoscenza che può esprimere almeno con un affettuoso «grazie!»; i genitori a volte si vergognano di pregare con lui o alla sua presenza e di partecipare uniti alla Messa domenicale; non si deve mai esigere dal figlio ciò che non è in grado di poter dare, come la condivisione indiscussa della mentalità dei genitori, ciò che nella crescita la natura li porta a rinnegare ma non come rifiuto, bensì come apertura a una situazione che cambia; se il figlio non fa, sia pure nei limiti della sua età, l’esperienza del dolore e dei disagi che esistono attorno a lui e non si abitua alla testimonianza dell’amore, non potrà che fare la fortuna della ricchezza con la sventura di diventarne schiavo. I figli si educano soprattutto col buon esempio perché se le parole volano, l’esempio rimane.
I giovani
Il mondo dei giovani è il mondo dell’avvenire anche se intanto rischia di essere anche il mondo delle contraddizioni destinato comunque a mutare col fattore del tempo che decide sui cambiamenti di tutti nell’arco della propria vita. Attualmente si nota nel mondo giovanile una forte difficoltà ad accedere all’esperienza di Dio e a promuovere la propria appartenenza alla Chiesa. Al contrario sembrano più inclini a lasciarsi coinvolgere nel mondo del consumismo in tutti i campi, come nelle precoci esperienze sessuali, nei divertimenti sfrenati, nell’uso degli stupefacenti, nell’agonismo senza tenere in giusto conto la salute e la vita, sprovvisti di un’ideale apertura all’aspetto escatologico della propria esistenza. Questo tuttavia è un mondo che i giovani non hanno potuto fare in tempo a crearsi per conto proprio, ma l’hanno ereditato da una comunità irresponsabile anche se poi i giovani si lasciano sedurre. Ecco in concreto l’altra strada che forse non è stata sufficientemente proposta ai giovani con chiarezza e che potrebbero percorrere con grande entusiasmo e successo. Dobbiamo affermare con convinzione che Gesù Cristo e i giovani sono fatti per incontrarsi. Gesù annuncia a ogni giovane che Dio lo ama, lo cerca, lo accoglie, gli dà la capacità di vivere in pienezza. La Chiesa promuove rincontro con Gesù Cristo per un patto di amore che dà pieno significato a tutta la vita del giovane, poiché ripone nel giovane la più lusinghiera speranza del proprio avvenire. Come non si può immaginare una famiglia con l’assenza dei giovani, altrettanto non si può immaginare la famiglia più grande della Chiesa costituita soltanto d’infanti e di anziani sprovvista della presenza vigorosa della fascia giovanile. Il luogo dell’incontro con Cristo, è la vita del giovane. Ogni giovane vale per se stesso: è un dono di Dio per la società e per la Chiesa. Egli deve chiedere di partecipare attivamente, da soggetto responsabile, alla propria crescita e anche' a quella religiosa. La vita del giovane non può prescindere da un’esperienza e da un progetto di famiglia, da un coinvolgimento nella vita sociale e politica, dalla professione, dal confronto col mondo dei poveri, ciò che esige educazione, cultura e comunicazione. Per crescere nella fede ogni giovane ha diritto di essere accolto nell’originalità della sua persona secondo la sua condizione e ambiente di vita. Tutto questo esige una pastorale di accostamento personale basata su un progetto costruito insieme e condiviso per un cammino di fede. Nella Chiesa i giovani hanno un posto che non può rimanere vuoto ma che essi stessi devono riempire, mettendoci dentro il proprio impegno di animazione e di vivacità a vantaggio anche di tutti gli altri che non sono ancora giovani o che non sono più giovani. Non esisterà mai la Chiesa dei giovani finché essi stessi non si saranno impegnati a costruirsela. Troppi giovani restano ai margini della Chiesa. Non possiamo in questo caso aspettare che essi vengano a noi e sarà difficile che possano venire se non saranno sollecitati da altri giovani sensibili al problema missionario del coinvolgimento. Riemerge quindi la necessità di stendere progetti e itinerari educativi in cui i giovani siano protagonisti attivi della propria educazione e capaci di generoso servizio alla comunità medesima. Nella comunità bisogna destinare spazi da riservare ai giovani perché non abbiano a sentirsi estraniati col rischio di suscitare l’impressione che la Chiesa può andare avanti anche senza di loro. Una volta responsabilizzati, i giovani funzionano con grande soddisfazione di tutti. E indispensabile promuovere i gruppi del Vangelo perché in essi i giovani abbiano a ritrovare la strada che li riconduce a Cristo. Così pure è indispensabile immettere i giovani nel volontariato perché imparino a riconoscere Cristo nei fratelli infermi e sofferenti. Ciascuno ha la fede che sa donare attraverso la testimonianza con cui, a parte l’aggiornamento del linguaggio, si comunica felicemente anche coi sordi e con gli estranei. Ciò che uccide la credibilità della Chiesa dei giovani sono le contraddizioni e le incoerenze da una parte e i compromessi che si assecondano dall’altra forse nell’intento di poter conquistare meglio la loro adesione o di evitarne la perdita. Purtroppo sono destinati a fallire tutti i nostri meravigliosi progetti sui giovani quando li fabbrichiamo senza coinvolgere gli interessati nel predisporli. Fiducia per fiducia, bisogna saperne spendere tanta per ottenerne altrettanta.
LA VITA MUTA MA NON SI SPEGNE
(VITA MUTATUR, NON TOLLITUR)
La vita cambia ma nessuno la può togliere, neppure Dio che l’ha creata ce la toglie. È come la vita del bruco che si trasforma in crisalide e la crisalide in leggiadra farfalla. Ma se la farfalla, deposte le uova, muore, la vita dell’uomo, superata la soglia della morte, rimane, perché nessuno la può mettere sotto terra. Purtroppo, noi, cristiani di poca fede, riteniamo che i nostri morti non appartengano più alla vita mentre siamo noi viventi che rimaniamo tuttora sotto la legge del peccato e della morte. Quando si passa da questo all’altro mondo, come si usa dire, la morte non ha più nessun potere su di noi perché siamo associati alla gloria di Cristo morto e risorto (Rm 6,7-11), subito con l’anima e alla fine del mondo anche col corpo. Dio, che è il Dio dei vivi e non dei morti, come afferma Cristo (Mt 22,30 e Lc 20,38), ci fa partecipi del suo regno come il Padre del Figliol Prodigo che festeggia il ritorno del figlio che era morto ed è tornato in vita. «Venite, benedetti, a possedere il regno che il Padre ha preparato per voi sin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34), dirà Cristo giudice rivolgendosi ai buoni posti alla sua destra, alla fine del mondo. Se i nostri morti godono la vita che non tramonta, noi dobbiamo imparare a convivere con loro senza abbandonarci a interminabili piagnistei improduttivi ma armonizzando la nostra con la loro vita. La fede è la lente attraverso cui possiamo contemplare il loro volto su cui si riflette la gloria del volto del Padre. Coi nostri funerali non possiamo celebrare la morte che è vinta per chi entra nella pasqua di Cristo risorto. Giustamente Cristo ha detto: «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti!» (Mt 8,19-22 e Lc 9,60) poiché: «Chi vive e crede in me non morrà in eterno!» (Gv 5,24 e 11,25). Per i cristiani non esiste pertanto il regno dei morti, ma solo il regno dei viventi in eterno. Nelle catacombe di S. Callisto a Roma si sono rinvenute due lapidi. Sulla prima c’era scritto: «Puella duodecim annorum, sepulta est in tenebris» (fanciulla di dodici anni sepolta nelle tenebre), ed era pagana. Sulla seconda c’era scritto: «Romule dulcissime a Christo concupitus, raptus es in coelum» (dolcissimo Romolo, di te si è invaghito il Cristo che ti ha rapito in cielo), ed era cristiano. Troppi cristiani purtroppo, invece di rivolgersi a Cristo, si rivolgono ai maghi e alle fattucchiere per mettersi in relazione coi propri cari estinti perseguendo vie sataniche fondate sulla superstizione, sull’impostura e sullo sfruttamento dei creduloni. È il Vangelo invece che ci offre i grandi messaggi dell’aldilà. Ad esempio Cristo ci ha detto che nella vita futura saremo tutti come angeli (Lc 20,34). È così che dobbiamo definire meglio i nostri cari defunti: angeli tutelari che vegliano su di noi e ci proteggono. I nostri avi nutrivano una grande devozione per i propri morti che invocavano in ogni circostanza difficile della loro vita. Ancora Gesù afferma che in cielo essi fanno sempre festa: «Il regno dei cieli è simile a un banchetto di nozze del figlio del re...» (Mt 22,2). La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro spalanca un balcone sull’aldilà per dimostrare come andranno le cose nella vita futura (Lc 16,20). Così pure col discorso delle beatitudini Gesù dimostra il ribaltamento delle situazioni: i poveri diventeranno ricchi, i tristi saranno consolati, i miti domineranno, gli affamati e assetati di giustizia saranno saziati, i misericordiosi troveranno misericordia, i puri vedranno Dio, i pacifici saranno chiamati figli di Dio, i perseguitati regneranno... E assai più importante quindi preoccuparsi della salvezza che crucciarsi a fare indagini sui morti. Sono due le strade aperte da poter percorrere, dice il Signore (Mt 7,13-14): quella larga comoda che molti percorrono ma porta alla perdizione e quell’altra, scomoda e stretta che pochi percorrono ma porta alla salvezza. A noi la scelta con tutte le rispettive conseguenze. La nostra sorte futura pertanto la decidiamo noi nella vita presente. Come si semina, si raccoglie, dice il proverbio. La commemorazione dei fedeli defunti ci offre un’occasione propizia per la nostra conversione e per disporci a vivere in comunione con i nostri cari che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace in attesa della risurrezione del loro corpo quando Cristo riapparirà alla fine del mondo.
d. Giulio G.
d. Giulio G.
COME PREMESSA AL
PROGRAMMA PASTORALE 1996/1997

Nel programma pluriennale proposto dalla nostra diocesi in preparazione al grande avvenimento del duemila, il primo riferimento tematico-simbolico è a Gesù Cristo nella dimensione pastorale di verifica della Parola come kerigma (annuncio) e della Fede come conversione, il tutto all’insegna dell’incontro con Cristo nella fraternità ecclesiale e nella apertura missionaria di fronte al mondo. Mi permetto di riferirmi a un discorso del cardinale Giacomo Biffi tenuto recentemente a Bologna. Innanzitutto, il cristianesimo è una persona: Gesù Cristo! Gesù Cristo è il cuore, il vertice, la sintesi dell’annuncio evangelico. Il cristianesimo, in sé, non è una concezione di qualche realtà o di un insieme di precetti da osservare ovvero neppure una liturgia da celebrare. Non è uno slancio di solidarietà o di fraternità sociale. Alla fin fine non è neppure una religione, ma è un evento che si compendia in una persona: Gesù Cristo. Oggi è invalsa la convinzione che tutte le religioni si equivalgono. Di fatti ciascuna ha qualcosa di buono. Ma il cristianesimo non centra perché non è una religione, ma è Cristo, cioè una persona. Si fanno tanti discorsi su Gesù Cristo, ma gli unici testi autentici che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Sappiamo dal Vangelo di Luca che Gesù doveva essere assai bello e attraente se a un certo punto una donna esplode di entusiasmo tra la folla a cui Gesù stava parlando: «Beato il grembo che ti ha portato in seno e che ti ha allattato!» (Le 16,22). È un elogio troppo corporeo che Gesù riporta sul tema della Parola di Dio per chi l’ascolta. Gesù era comunque un bell’uomo! Il suo sguardo era penetrante, anzi folgorante su quanti lo indirizzava, come su Simone, su Zaccheo, sulla peccatrice. Era uno sguardo che parlava. Gesù aveva le idee chiare: non diceva mai «mi sembra, forse, secondo me, mi pare, non mi pare, ecc». Non aveva peli sulla lingua neppure coi potenti. Al re Erode dà della “volpe”, agli scribi e farisei dà dei “sepolcri imbiancati”». Si sentiva pertanto un uomo libero, pienamente schivo da qualsiasi condizionamento, e ciò, anche nei confronti dei suoi parenti che a un certo punto lo ritengono pazzo e lo vanno a riprendere per ricondurlo a casa (Mc 3,35). Gesù rischia così di figurare un uomo troppo duro anche nei confronti di sua madre pur di affermare la sua piena libertà. Ma Gesù è soprattutto «Amore» e tenerezza, come nei confronti dei bambini, dei peccatori, della vedova di Nain, degli amici Lazzaro e sorelle, degli affamati che sfama moltiplicando il pane e il pesce, della sua patria e del suo popolo che avrebbe accolto volentieri come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, dei discepoli e persino di Giuda, il traditore, che definisce «amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!» (Mt 26,48 e Lc 22,47). Gesù si diporta da gran cavaliere con le donne, persino con le lucciole e le peccatrici più scandalose del suo tempo. Vedi la samaritana, l’adultera, la peccatrice in casa di Simone il lebbroso, la Maddalena. Non si lascia intaccare della mentalità che primeggia nella Sinagoga, a costo di subirne poi tutte le conseguenze. Ma la sua umanità eccezionale e il suo rispetto alla persona conquista alla causa della salvezza. Gesù non è soltanto un uomo, ma è più che un uomo poiché parla, opera e giudica così come nessun altro uomo al mondo avrebbe potuto fare attribuendosi poteri divini: «Che cosa è più facile dire, ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire, prendi il tuo lettuccio e cammina!» (Lc 5,23). Chi mai al mondo avrebbe potuto esclamare: «Beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i misericordiosi, i puri, ecc.» (Mt. 5,3 e ss.) coi rispettivi riscontri che affermano con sicurezza il cambiamento delle situazioni tra il mondo di qui e il mondo di là! E chi poteva mai dire: «Chi dà la vita per me la troverà!» (Mt 19,27); oppure: «Avevo fame, avevo sete, ero assetato, ignudo, pellegrino, carcerato, ecc.» (Mt 25,35). Gesù si presenta come l’inviato dal Padre a fare la sua volontà, si dichiara in piena armonia col Padre e di essere una sola cosa col Padre (Gv 17,20). Il Padre lo manda come l’unico erede ai vignaioli, secondo la parabola del Vangelo (Mt 21,33; Mc 12,1 s; Lc, 20,9s), che lo uccidono fuori della vigna per diventarne eredi. E Gesù applica a sé tutti i passi scritturistici del V.T. inerenti alla sua passione e morte di croce e risurrezione che trovano in lui pieno compimento secondo un disegno fatto dal Padre per redimere l’umanità peccatrice. Gesù Cristo pertanto è il vivente in eterno, che è salito al Padre e nello stesso tempo rimane con noi sino alla consumazione dei secoli per essere la nostra vita e la nostra salvezza per cui dobbiamo concludere che il cristianesimo è una persona che suscita il suo regno di amore nei nostri cuori: Gesù Cristo. Di fronte a Gesù quindi non possiamo che inginocchiarci per adorarlo e per proclamarci suoi fedeli seguaci, poiché è Lui la Via, la Verità e la Vita per tutti quelli che credono in Lui (Gv 14,6) e in Lui trovano la salvezza (Mt 18,10; Lc 5,32; Gv 3,17 ecc).
don Giulio
don Giulio
NATALE 1996
Natale, è la festa del Dio incarnato che ha voluto farsi simile all’uomo affinché l’uomo diventasse simile a Dio. Potremmo scandalizzarci di fronte a questo nostro Dio che ci ha voluto raggiungere sulla terra percorrendo la via della generazione umana. Ma se Dio ha fatto ciò, è perché continua a essere l’eterno innamorato dell’uomo per cui ha deciso di venire al mondo rivestito della nostra stessa umanità affinché potesse sacrificare se stesso come capro espiatorio delle nostre colpe. Dopo il Concilio si continua ad affermare con insistenza che la via di Dio è l’uomo. Ne abbiamo la più grande prova nel fatto della Incarnazione che celebriamo nel santo Natale. Se la via di Dio è l’uomo, è necessario che la via dell’uomo sia Dio, ma il Dio incarnato, Gesù Cristo. Gesù Cristo è il novello Adamo, l’uomo dell’obbedienza, che si contrappone al vecchio Adamo, l'uomo della disobbedienza, che aveva intentato di percorrere la strada più corta per divenire simile a Dio cadendo nel peccato di superbia e di disobbedienza in cui ha trascinato tutta la sua discendenza. La triste esperienza umana ci insegna che bisogna cambiare strada. In Gesù Cristo infatti ritroviamo la giusta strada che conduce Dio all’uomo e l’uomo a Dio. Giustamente Gesù ha detto «Io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14,6). Il Natale ha questo grande significato che Giovanni, l’Evangelista, esprime soprattutto nel prologo del suo Vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo, la Parola, era Dio. Per mezzo di Lui, Dio. ha creato ogni cosa. Egli era la vita e la vita era la luce per gli uomini... e quelli che credono alla luce, scesa nelle tenebre della colpa, diventano figli di Dio». L'uomo è sempre stato nel pensiero di Dio sin dall’eternità. Mentre il nostro pensiero, il più delle volte, non è che fantasia che svanisce nel nulla, il pensiero di Dio è sempre realtà che si manifesta a noi nel tempo attraverso la creazione con cui Dio trae dal suo amore, e non dal nulla, tutte le creature al vertice delle quali ha posto l'uomo con la capacità d’intendere e di volere. Tanto per intenderci, possiamo affermare che sono principalmente tre gli interventi di Dio a favore dell’umanità. Il primo è avvenuto quando ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Il secondo intervento è avvenuto quando Dio stesso si è fatto a nostra immagine e somiglianza in Gesù Cristo che dà compimento in se a tutta la rivelazione. Il terzo intervento, che dipende anche dalla nostra collaborazione mentre i precedenti dipesero esclusivamente da Dio, è sempre di attualità ogni volta che eleva alla dignità dei suoi figli coloro che credono a Gesù Cristo, luce scesa nelle tenebre delle nostre colpe per redimerci. Il Natale pertanto è sempre in atto finché Dio continua a rinascere nell'uomo col suo amore. Noi celebriamo il Natale storico che ricorda il secondo intervento di Dio a riguardo dell’umanità.
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Ma questa celebrazione rischia di esaurirsi nella banalità di una festa pagana se non si carica del significato più grande che deve avere il Natale: la rinascita dell'uomo come figlio di Dio attraverso la conversione in Gesù Cristo nostro unico salvatore. Se Cristo è il Dio in cammino sulla nostra strada del peccato, andiamogli incontro per ritrovare in Lui la strada della sua parola e del suo esempio che ci riconduce a Dio.
Di gran cuore, buon Natale a tutti. Aff.mo don Giulio |